Siamo a Reykjavik, in una guest house vicino al centro. Vista da fuori è piuttosto inquietante. Nell’insieme, l’intonaco grigiastro a toppe bianche, gli infissi di legno verniciati di un rosso scuro tutti scrostati, il giardino piccolo, incolto e disordinato, si ha l’impressione di casa disabitata. L’interno riabilita l’aspetto esterno. Le camere sono disposte su due piani. Al primo piano c’è una cucina ad uso comune, mentre ad ogni piano c’è un bagno, piccolo ma pulito. Le camere sono accoglienti, calde e pulite, con grandi vetrate che si affacciano sulla strada.
Reykjavik è la capitale più settentrionale del mondo. Affacciata sul golfo di Faxafloi, si trova nella penisola di Reykjanes dove passa la dorsale medio-atlantica che attraversa tutta l’isola, causa di frequenti terremoti. Il suo nome, tradotto letteralmente, significa la “città della baia con i fumi“, naturalmente quelli geotermali, numerosissimi nella zona.
La notte è stata un po’ agitata. Atterriamo a Stoccolma intorno alle 1:15. Guadagniamo delle poltroncine comode per cercare di dormire un po’, anche se il luogo e la confusione non facilitano l’impresa. Prima delle cinque abbandoniamo ogni velleità di riposo.
Alle 6 decolliamo alla volta di Copenhagen, per poi, dopo tre ore, ripartire, finalmente, per la nostra destinazione finale.
Arriviamo all’aeroporto internazionale di Keflavík. Se vuoi arrivare in Islanda devi passare da qui. L’aeroporto è piccolo pertanto è piuttosto facile orientarsi. Le bici arrivano subito.
Fuori il diluvio. Abbiamo l’impressione che dovremo abituarci alla pioggia. Carichiamo tutto sui carrelli e ci spostiamo fuori dell’aeroporto dove è allestita un’area adibita al montaggio delle bici. La grossa stanza a vetri è fornita in maniera eccellente; ha tutto qual che serve per montare, smontare e fare manutenzione alle biciclette. Qui la sensibilità verso chi viene con il mezzo a due ruote è notevole.
Dentro al stanza un ragazzo tedesco sui venticinque anni. Alto, magro, con il viso lungo e una fascia da sci della Rossignol che riscalda una testa di ispidi capelli biondi. È piuttosto silenzioso mentre si prepara a chiudere la sua bicicletta, già smontata, dentro ad un grosso cartone prima di imbarcarla.
Lavora con la pazienza e la meticolosità di un serial killer, seviziando un cartone per farne protezioni per ogni singolo bullone o parte sporgente della propria bici.
Noi impieghiamo circa un’ora per montare le bici e caricare i bagagli.
Lasciamo il ragazzo tedesco intento a fare bricolage con cartoni e nastro americano e ci lanciamo sotto la pioggia puntando verso l’uscita dell’area aeroportuale.
Percorriamo una ciclabile che risale la penisola in direzione Reykjavik. Ai nostri lati prati verdissimi si alternano a scure rocce laviche.
Dopo pochi chilometri ci fermiamo alla guest house che ci ospiterà il penultimo giorno per lasciare in custodia le borse da bici.
La signora, una tipica islandese dai capelli biondissimi e gli occhi azzurri , un viso tondo e le guance color ciliegia è gentile e disponibile. Ci fa lasciare le quattro borse alla reception, il che ci alleggerisce un bel po’, ma soprattutto ci fa guadagnare un notevole volume di carico per poter disporre di una cambusa per le provviste di tutto rispetto.
Una piccola sosta per il pranzo al supermercato ci riscalda e ci fa morale prima di percorrere i circa cinquantacinque chilometri che ci separano dalla capitale.
La strada che conduce a Reykjavik è una statale dritta, caratterizzata da lunghi saliscendi. Da un lato l’oceano Atlantico, dall’altro le montagne ai piedi delle quali un’evidente depressione che corre da sud a nord, forse la famosa dorsale medio-atlantica.
Intanto ha smesso di piovere e un timido sole sta facendo capolino tra le nuvole.
I chilometri scorrono velocemente. Usciamo dalla statale per attraversare la città di Hafnarfjördur, la terza città più grande d’Islanda. Non che ci sia molto da vedere, ma vogliamo passare dal bar vichingo, che troviamo rigorosamente chiuso.
Il Miche inizia ad essere stanco pertanto ci affrettiamo a pedalare gli ultimi dodici chilometri che si separano dalla guest house.
Una volta arrivati non dobbiamo far altro che digitare il codice che ci è stato comunicato e in un battibaleno prendiamo possesso della nostra stanza.
È decisamente tardi. Dobbiamo ancora mangiare. Micky e Dudu intanto vanno al vicino Domino’s pizza per prendere le solite pepperoni pizza. Io rimango ad aiutare il Miche a fare la doccia con un’acqua dal fortissimo odore di zolfo.
Cena e a letto. Domani ci concediamo una visita della capitale, nella speranza che il tempo conceda a noi un po’ di sole.