Non tutte le ciambelle riescono col buco. Questa volta la tappa non è andata come avevamo pianificato e abbiamo dovuto trovate, in fretta, un piano B efficace.
Siamo in un rifugio di emergenza ad almeno venticinque chilometri dalla costruzione più vicina quando saremmo dovuti essere in un campeggio a Þingvellir.
Ci troviamo lungo la strada del kaldidalur, che in islandese significa valle fredda, nel bel mezzo di un deserto. Ci dispiace aver perso un giorno sulla tabella di marcia, e di conseguenza dover ripensare parte del viaggio, ma stiamo bene e avremo la possibilità di vivere l’esperienza non comune di dormire in un rifugio di emergenza.
Ci svegliamo la mattina intorno alle 8 a Húsafell. Niccolò non si sente tanto bene; ha un po’ di tosse, mal gola e un fortissimo raffreddore. L’umidità di questi giorni si sta facendo sentire. Ci prendiamo i nostri tempi, per fare colazione con calma, capire le condizioni di Niccolò, che ci rassicura sufficientemente bene da partire, e rilassarci un po’, forse troppo.
Alle 10 siamo ancora al campeggio. Come lo sceriffo di Nottingham si presenta puntuale una ragazza a riscuotere l’affitto della piazzola. Paghiamo, finiamo di preparare bici e bagagli e partiamo.
Pochi chilometri e lasciamo la strada asfaltata svoltando sulla destra su di una sterrata. Ci troviamo subito di fronte ad un bellissimo campo lavico (ovviamente lava solidificata frutto di una enorme eruzione avvenuta intorno all’anno mille).
Da qui inizia il deserto di Kaldidalur.
Niccolò, come sempre è quello che indica la strada, in questo caso il nostro Mosè, anche se siamo fiduciosi di uscire dal deserto in meno di quarant’anni.
Qualche foto e ripartiamo. La strada inizia a salire. Ci aspettano circa 24 chilometri di costante salita, ora più dolce, ora più ripida. Il vento è moderato e la pioggia arriva a sprazzi, anche se è freddo. La strada è percorsa da numerosi fuoristrada e furgoni 4×4 per il trasporto dei turisti verso il ghiacciaio. I più sono rispettosi, qualcuno ci sfreccia accanto non lasciando la minima distanza di sicurezza.
In lontananza si vedono due bici scendere verso di noi. Sono una coppia di Barcellona che sta percorrendo la strada in senso contrario al nostro. Arrivano da Þingvellir. Ci suggeriscono di prestare attenzione perché in quota il tempo è pessimo, con pioggia gelata, forte vento ed è in netto peggioramento. Ormai proseguiamo. Abbiamo la tenda, e vestiti per coprirci, provviste e acqua per almeno due o tre giorni.
Ci concediamo una sosta per uno spuntino e ripartiamo. Il terreno pian piano diventa fangoso e il freddo aumenta. Ora la pioggia batte incessante ed il vento soffia decisame forte, tanto da rallentare notevolmente il nostro procedere, già lento.
Ci fermiamo e consumiamo il pranzo protetti da uno dei teli che mettiamo sotto la tenda.
Continuiamo a salire, arrivando al ghiacciaio Þórisjökull, mentre intorno a noi svettano le cime dei vulcani Prestahnúkur e Ok. È decisamente freddo e Niccolò inizia ad accusare mal di testa e freddo ai piedi. Siamo vicini al passo Kaldidalur. Ormai è chiaro a tutti che arrivare a Þingvellir non è più un obiettivo.
Serve un piano B che ancora non è ben definito nella nostra testa. Sicuramente dobbiamo iniziare a scendere perché in quota, circondati dai ghiacciai, fa troppo freddo. Quando saremo ad una quota più bassa monteremo la tenda, passeremo la notte per poi ripartire domattina.
Massaggiamo i piedi di Niccolò con olio riscaldante che lo fa stare subito meglio.
Costeggiamo ora l’enorme ghiacciaio Langjökull, il secondo più grande d’Islanda, che contrariamente alla tendenza globale della diminuzione dell’estensione dei ghiacciai, sta avanzando.
Finalmente siamo al passo Kaldidalur. Un enorme cumulo di pietre lasciate dagli escursionisti lo indica chiaramente. Lasciamo velocemente le nostre pietre e iniziamo a scendere.
Sono le 18:30. Nel giro di un’ora vogliamo trovare una sistemazione per la notte. La strada fangosa e alcuni saliscendi rendo la discesa meno semplice del previsto.
Finalmente smette di piovere; un segnale incoraggiante.
In lontananza compare la sagoma di una casina rossa. Scendendo è sempre più vicina. Ci fermiamo nei pressi del piccolo rifugio per vedere cosa c’è. La porta è fermata con una pietra. Entriamo. Appare subito il luogo perfetto dove pernottare. Un quaderno con i ringraziamenti dei viaggiatori ci suggerisce che è un luogo utilizzato con una certa frequenza. L’ultima nota di due escursionisti francesi in data 26 Luglio.
In pochi metri quadri due panche, un ripiano con fornelli a gas, una stufa a gas e tutto il necessario per sopravvivere qualche giorno. Acqua, cibo, caffè, cassetta di pronto soccorso, radio per comunicare.
È giusto fermarci, dopotutto qui è la natura che comanda. A noi non rimane che adeguarci.
Ne prendiamo possesso, con assoluto rispetto. Una volta chiusi dentro il silenzio è surreale, si sente solo il soffio del vento e, a tratti, la pioggia che sbatte contro la lamiera del tetto.
Discutiamo di come ripianificare il viaggio sacrificando il meno possibile del nostro viaggio originale, dopodiché prepariamo la cena con le nostre provviste. Cous cous con tonno, mais e carotine. Poi a letto in una location davvero particolare.