Nel corso degli anni abbiamo pedalato in tanti paesi, abbiamo affrontato situazioni stressanti: la tempesta in Islanda, il ciclone in Thailandia o la bufera di neve negli Stati Uniti. Tutte situazioni che abbiamo affrontato gestendo il momento con qualche preoccupazione, ma non abbiamo mai vissuto una situazione di stress continuo.
Oggi è successo, in una giornata dal tracciato sulla carta semplice, con più discesa che salita, soleggiata e senza vento. Siamo stati più accorti del solito, cercando di infondere più tranquillità del solito, ma non è stato semplice.
È mattina presto a Kathmandu, in Italia è notte fonda, noi iniziamo a prepararci per buttarci nel traffico e uscire da questa città che rimarrà, con tutte le sue contraddizioni, nel nostro cuore.
Colazione e carico delle bici, che abbiamo arricchito, in segno di buon auspicio, con delle bellissime bandierine di preghiera tibetane.
Alle 9 siamo in sella. Attraversiamo il centro, sempre molto trafficato, ma decisamente meno affollato. I negozi sono aperti, la frutta è in esposizione dai fruttivendoli e le macellerie, con il bancone di lavoro che si affaccia sulla strada, mostrano polli e teste di maiale con una fila di cani in attesa di qualche scarto.
Ora dobbiamo immetterci per un tratto nel ring road di Kathmandu, una circonvallazione a otto corsie lunga 27 chilometri che circonda le città di Kathmandu e Lalitpur. L’immissione è complicata, ma con un po’ di pazienza e sangue freddo si fa. Il baccano è incredibile tra camion e il continuo suonare il clacson che ci accompagnerà tutto il viaggio.
Siamo ormai nella periferia più esterna di Kathmandu. Un signore si rade la barba per strada seduto su di uno sgabello, dei bambini aspettano l’autobus per la scuola, una squadra di operai lavora in piedi su di un pilastro dell’alta tensione senza la minima misura di sicurezza. Adoriamo viaggiare in bici anche perché ci regala scorci di vita quotidiana di culture e luoghi così lontani da noi.
Intanto passa un autobus con una folla di persone accalcate all’interno. Alla fermata la corriera rallenta e chi deve scendere scende al volo, così come chi deve salire.
Davanti a noi un posto di blocco che interpretiamo come la fine della città. Finalmente potremo rilassarci senza il caos della metropoli, anche se attraverseremo la valle di Kathmandu sulla strada principale.
Cartelli con scritto “no horn” puntualmente disattesi sono un po’ ovunque. La strada è a due corsie, una per senso di marcia. Davanti a noi una lunga discesa. In realtà questo è l’inizio della parte peggiore. Abbiamo percorso quindici chilometri e ne mancano ancora oltre trentacinque all’hotel.
La strada è percorsa da camion, pullman, furgoni e auto che guidano come fossero ad un rally. I sorpassi azzardati sono la regola, incuranti di noi che siamo costretti alle volte a fermarsi su di un lato appiattiti sulla parete di vegetazione.
La strada ora diventa sterrata, con enormi rocce che spuntano dal terreno, profondi solchi di pneumatici e guadi di acqua che scende dalle montagne. Tutto questo non scoraggia gli spericolati nepalesi, che ci sorpassano a non più di dieci centimetri di distanza e ci stordiscono con le loro potenti trombe dai suoni più strani.
Micky guida il gruppo da capitano decidendo quando fermarci e quando passare, io lo chiudo gridando come il più scalmanato degli allenatori indicando pericoli e comportamenti da tenere.
Indossiamo le mascherine e gli occhiali per la polvere e lo scarico dei camion che somigliano a centrali a carbone su quattro ruote. Gli spaventi sono tanti e quando la strada lo consente ci soffermiamo per recuperare le energie mentali.
Pedalare in queste condizioni è faticoso mentalmente. Siamo sempre in tensione per noi stessi e ancor di più per i ragazzi, che sono bravissimi e ubbidiscono come soldatini. Occorrerà un po’ di pratica e qualche spavento per capire il loro modo di guidare.
È ora di pranzo. Ci fermiamo in un piccolo locale polveroso che è poco più di una baracca di latta. Come tutti i nepalesi le persone sono gentili e sorridenti. Mangiamo delle frittelle di cavolo, momo ripieni di pollo, ravioli ripieni di carne o verdure originari del Nepal e del Tibet e involtini primavera.
Prima di salutarci ci chiedono l’itinerario del nostro viaggio e, alla nostra risposta, si raccomandano di stare particolarmente attenti in India dove le strade sono pericolose perché gli indiani guidano malissimo. Difficilmente riusciamo ad immaginare una guida più spericolata di queste.
Un’anziana e minuta signora, adornata con pochi e semplici gioielli, con uno splendido vestito rosso, le mani coperte da tatuaggi stinti e il viso segnato dall’età e dal lavoro si avvicina a noi per cercare di comunicare. Lo sguardo è buono. Si toglie il grosso carico che trasporta sulla schiena, sostenuto da una fascia che le passa intorno alla testa e si poggia sulla fronte e inizia a parlare in nepalese. Noi non capiamo lei e lei non capisce noi, ma ci piacciamo. Conversiamo per minuti ognuno nella propria lingua tra sorrisi e sguardi. Vuole che la si guardi negli occhi mentre ci fa dei segni che interpretiamo come una benedizione. A noi basta. La salutiamo con affetto e ci rimettiamo in sella per gli ultimi quindici chilometri di ansia prima di arrivare in hotel, mentre alcuni bambini ci accompagnano correndoci e salutandoci.
Incontriamo un bivio e svoltiamo a sinistra incontrando il fiume Trishuli, che ci accompagnerà per qualche giorno. È famoso per essere uno dei luoghi più belli al mondo per il rafting che noi faremo dopodomani.
Finalmente l’indicazione per il Trishuli Beach resort. Per raggiungerlo imbocchiamo una stradina sterrata sulla destra che si arrampica ripidamente sulla montagna. Io e Niccolò ci avviamo a verificare di non aver sbagliato strada, mentre Micky e il Miche ci vengono dietro con calma spingendo la bici.
L’hotel è decisamente bello per gli standard nepalesi. L’unico problema è che non risulta la nostra prenotazione già pagata attraverso Airbnb. Passiamo oltre un’ora con l’assistenza del portale per risolvere la situazione, che in ogni modo sia noi sia il personale dell’hotel siamo decisi a risolvere .
Dopo un po’ capiamo il problema L’hotel da due anni ha cambiato gestione e i nuovi proprietari non sapevano neanche dell’esistenza di Airbnb. Risolviamo convincendo il portale a cancellare la prenotazione rimborsandoci quanto pagato e prendendo una camera per quattro con colazione.
Nel resort una coppia di sposini sta facendo il servizio fotografico. Sembrano davvero due bambini. Si capisce che sono sposati dal sindur, una polvere rossa che ha la ragazza ha applicato nei capelli.
Concludiamo la serata con una cena sulla terrazza che si affaccia sul fiume. Micky, Niccolò ed io prendiamo il thali, un grande piatto in metallo tante piccole ciotole chiamate Katori che contengono cibi diversi. Niccolò ed io con il pollo, Micky vegetariano. Per Michelangelo riso fritto con uova.
Prima delle 21 siamo a letto, dato che domani ci aspettano altri cinquanta chilometri, ma con dislivello decisamente più impegnativo.