Siamo a Washington DC. La tempesta è passata, lasciando per le strade grossi cumuli di neve e rami di aberi abbattuti. Abbiamo pedalato per circa 1000 chilometri, attraversato le maggiori città della costa atlantica, vissuto gli States per quasi un mese.
Prima di tornare in Italia ci rimangono tre giorni per visitare una città che trasuda orgoglio a stelle e strisce da ogni suo angolo. Una città fondata appositamente per essere la capitale federale degli Stati Uniti d’America, la cui esatta ubicazione fu scelta proprio da George Washington che commissionò la progettazione all’architetto francese Pierre L’Enfant. Ispirata a Parigi, è una città dall’aspetto grandioso e classicheggiante con ha tanta storia da raccontare, anche se è giovane anagraficamente.
In realtà non basterebbe un mese per visitare quello che Washington DC ha da offrire, in termini di cultura, con lo Smithsonian Institution, il complesso museale, composto da 17 musei e gallerie, con suoi memorial e con i famosi palazzi dove si prendono le decisioni più importanti del mondo: da Capitol Hill, dove risiede il congresso degli Stati Uniti, alla Casa Bianca, la dimora del presidente, fino al Pentagono, sede del dipartimento della difesa. Inoltre la città ha molti quartieri interessanti, ognuno con una propria anima.
Noi abbiamo la fortuna di visitare una Washington pressoché deserta; forse per le condizioni meteo, più probabilmente per la pandemia. In strada ci sono poche persone, così come nei musei e nei locali. Possiamo goderci i musei e i monumenti in santa pace, senza file né affollamenti.
I primi due giorni, a causa delle strade innevate e del ghiaccio, abbiamo deciso di spostarci utilizzando la metro. L’ultimo giorno in bici. Potersi gustare una città sui pedali ha tutto un altro sapore.
Day1
La sveglia non è delle migliori. Dudu è pieno di ponfi rossi in tutto il corpo. Sospettiamo siano state le pulci del viaggiatore, ma non ne siamo sicuri.
Sarebbe la seconda volta durante questo viaggio. La prima vittima è stata il Miche, a pochi giorni dalla partenza, che per una settimana ha dovuto combattere il prurito con pomata al cortisone e antistaminici, sempre presenti nella nostra cassetta del pronto soccorso. Ora Niccolò, anche se nel letto ad occhio nudo non ne abbiamo trovate. Loro agiscono di notte, poi si nascondono.
Ma cosa sono? Le cimici dei letti, chiamate anche pulci del viaggiatore, sono piccoli insetti infestanti. Amano stare in luoghi caldi quindi camere da letto, e hotel sono luoghi perfetti.
La cimice dei letti era uno dei parassiti più diffusi fino a 50-70 anni fa. Da quel momento la sua presenza nel mondo ha subito un inesorabile declino fino a scomparire quasi del tutto, probabilmente a causa della messa in commercio del DDT. A partire dagli anni ’90 la cimice dei letti è ricomparsa in molti Paesi e, intorno agli anni 2000, si è nuovamente diffusa in tutto il mondo. Fortunatamente la loro puntura non veicola virus né causa malattie come le zecche, ma lascia dei segni rossi che causano prurito.
Avevamo conosciuto questi fastidiosi animaletti durante il cammino di Santiago, dove erano frequenti tra in pellegrini, ma fortunatamente, senza essere punti. È incredibile. Dopo aver fatto due volte il cammino di Santiago, aver dormito in luoghi non proprio a 5 stelle, a Cuba in Thailandia, in Russia le prendiamo due volte, i due luoghi diversi, negli Stati Uniti.
Usciamo con calma perché Dudu e il Miche devono fare i compiti. La prima tappa è Bethesda una cittadina del Maryland a 20 minuti di metro da Washington DC. Lì troveremo l’unico Apple store della zona. Vorremmo comprare l’Apple Watch a Dudu, il regalo di compleanno che ha posticipato di quasi due mesi in vista di questo viaggio.
Camminiamo per coprire i tre chilometri che ci separano dalla metro, prendendo coscienza di come fosse impossibile uscire in bici. Con enorme sorpresa le strade sono ancora completamente innevate; lastre di il ghiaccio sul marciapide rendono complicato anche il semplicemente camminare.
Una metro semivuota ci porta a Bethesda. La strada che ci conduce allo Apple Store è chiusa al traffico e ben curata, con piante e tavoli colorati al centro e locali su ambo i lati. Davanti alla Apple una lunga fila di persone è in attesa del proprio turno, mentre un addetto ci chiede se abbiamo l’appuntamento. Ovviamente no. Quindi niente acquisto e appuntamento preso per le 18:30.
Mangiamo da Chira, un piccolo locale che serve cibo biologico e vegetariano. Prendiamo tacos e zuppa che gustiamo in un tavolino blu elettrico nella strada principale, prima di riprendere la metro ed immergerci nel rosso, bianco e blu dello Smithsonian National Museum of American History. Anche se, onestamente, gli Stati Uniti hanno poco di storico in confronto a noi, riescono a valorizzarlo e presentarlo in maniera eccellente, riuscendo ad emozionarci a a farci sentire quel patriottismo che così ostentato in ogni cosa che fanno.
Trascorriamo un paio d’ore girando tra gli oltre tre milioni di articoli in mostra. La prima cosa da vedere non può non essere la “Star-Spangler banner”, ovvero la bandiera che sventolò sopra Fort McHenry a Baltimora durante la guerra di secessione, ispirando Francis Scott Key a scrivere l’inno nazionale. È molto più grande di quello che ci saremmo aspettati. Probabilmente è la l’oggetto più importante esposto. Lungo un corridoio è raccontata la storia della bandiera e della sarta che l’ha realizzata e dell’inno nazionale, con tanto di manoscritto e spartito musicale originali.
Passiamo poi velocemente dalla stanza dei presidenti, a quella delle First Lady, dalla descrizione delle case dell’800, alle scarpette color rubino di Dorothy di Il mago di Oz. Davvero bello.
Usciamo alle 17:30, per la chiusura del museo. Prima di rituffarci in metro per tornare a Bethesda facciamo un giro per i negozi prima del centro.
Ecco che siamo di nuovo all’Apple Store; ovviamente la nostra prenotazione è andata persa, ma con un po’ di pazienza e l’aiuto di un commesso gentile siamo riusciti a comprare a Dudu il suo regalo di compleanno.
È ora di tornare in hotel. Di nuovo in metro, poi i tre chilometri a piedi lungo la bella strada residenziale, ora tutta illuminata dagli addobbi natalizi.
La serata si conclude cenando in camera con pollo e insalata.
Day2
Solita sveglia, colazione e compiti. Non riusciamo ad essere fuori prima delle 11. La prima sosta è il vicino centro di Arlington e fare un pochino di shopping. Ora che siamo arrivati a Washington DC siamo più rilassati e dobbiamo cercare qualche regalino da portare in Italia che soddisfi alcuni criteri: in primis di ingombro, affinché possa entrare nelle borse, e poi di peso per non dover pagare supplementi ai fiscalissimi operatori del check-in.
Dopo un pranzo a base dell’ennesimo, buonissimo, hamburger è la volta del Museo di Storia Naturale, aperto nel 1910 per invocare la scoperta e l’educazione del mondo naturale. Qui ci muoviamo tra enormi fossili di dinosauro, che ci lasciano letteralmente a bocca aperta. Trovarsi davanti allo scheletro di un triceratopo, un stegosauro e persino di sua maestà T-Rex è un’esperienza fantastica.
Il giro prosegue nella preistoria attraverso le varie ere fino ad arrivare al mammut all’orso delle caverne, alla tigre dai denti a sciabola e finalmente alla comparsa dell’uomo. Un’intera area è dedicata proprio alla storia dell’uomo, partendo dai primi ominidi fino alla conquista del fuoco. Io rimarrei qui per giorni, leggendo tutto quel che è possibile, ma il museo è grande e cose da vedere sono tante. Passiamo all’area espositiva degli oceani e infine ai quella, immensa, dei minerali, una materia che appassiona particolarmente il Miche, da sempre collezionista seriale di sassi. Solo la sirena che indica la chiusura del museo, insieme agli energici inviti degli addetti ci convincono ad andare via, non senza la sensazione di non aver visto abbastanza.
Prima di tornare in hotel un’altra visita ai negozi del centro. Cena a base di uova e zuppa di verdure prima di andare a letto.
Day3
È il giorno della visita ai memorial e dei tamponi, che un po’ ci preoccupano. Per tornare in Italia occorre avere un tampone negativo nelle 24 ore precedenti all’imbarco. Essere positivi sarebbe una bella gatta da pelare. Nessuno di noi ha mai avuto alcun sintomo collegabile al COVID; durante tutto il viaggio abbiamo fatto attenzione a evitare posti affollati e ad indossare sempre una mascherina ffp2, ma una percentuale di incertezza c’è sempre, anche fosse un falso positivo.
Ci svegliamo presto. Durante la notte una brutta sorpresa. Micky ha ucciso una pulce dei materassi sul cuscino. Usciamo per andare a protestare alla reception, che oltre a scusarsi ci fa disinfettare la stanza e ci offre una notte gratis. Prendiamo le bici e per le 9 siamo fuori. È freddino, ma il cielo azzurro, il sole splendente e le strade finalmente sgombre dalla neve rendono la pedalata piacevole.
Sfiliamo accanto al cimitero nazionale di Arlington, il più grande e famoso cimitero militare degli Stati Uniti sulle rive del Potomac; dall’altra parte del fiume il Lincoln Memorial. Il cimitero di Arlington si vede spesso nei telegiornali quando mostrano i caduti americani. Qui è sepolto Kennedy. Qui è sepolto il milite ignoto. Esiste dai tempi della guerra di secessione e sorse in origine a fianco della casa di Robert Edward Lee, lo storico generale sudista. Ospita circa 420mila tombe, per la grande maggioranza uguali: lapidi bianche, spoglie e sobrie. Il cimitero di Arlington è una vera istituzione, ed è il posto dove vogliono farsi seppellire moltissimi militari americani.
Seguendo il corso del fiume passiamo ora di fronte al Pentagono, una struttura pensata come un grande fortino che richiama le idee di architettura bellica francese di fine Ottocento. È un edificio in cemento armato unico composto da cinque pentagoni concentrici separati da pozzi di luce e collegati tra loro da corridoi. Da fuori è decisamente brutto, probabilmente la vista dall’alto ha il proprio fascino.
Attraverso un bel parco ancora innevato arriviamo al Thomas Jefferson Memorial in onore del terzo presidente degli Stati Uniti. Assomiglia tanto al Pantheon di Roma, in ragione della passione dell’architettura neoclassica di Thomas Jefferson. Il memorial è tutto per noi, a parte due operai che stanno eseguendo delle opere di manutenzione su un lato della scalinata. Dentro il memoriale una enorme statua in bronzo di Jefferson, e sulle pareti incisioni di parole importanti della storia americana, tra cui un estratto della Dichiarazione di Indipendenza: “Riteniamo che queste verità siano evidenti: che tutti gli uomini sono creati uguali, che sono dotati dal loro Creatore di alcuni diritti inalienabili, tra questi vi sono la vita, la libertà e la ricerca della felicità“.
È il momento del Lincoln Memorial, il tempio dedicato ad Abraham Lincoln. Il monumento è chiaramente ispirato al Partenone, perchè è stato pensato che un difensore della democrazia dovesse essere omaggiato con un simbolo proveniente dalla culla della democrazia. Per arrivare alla cima del monumento una lunga scalinata.
Visitiamo il tempio due a due per non lasciare incustodite le bici, anche se dal numero di poliziotti in giro si potrebbe stare relativamente tranquilli. Prima io e Micky, poi Dudu e il Miche. Dentro il tempio la statua in marmo di Lincoln con quel volto serio, barbuto e solcato dalle rughe, che, anche se non sei americano, ti è subito familiare. Sulle mura di marmo sono incisi alcuni discorsi famosi di Lincoln, tra cui il più importante, quello pronunciato al termine della guerra civile per pacificare un popolo che si era combattuto fino a pochi giorni prima.
Scendiamo. Di fronte a noi il National Mall, il viale dove il 28 Agosto del 1963 una folla di persone si è riunita per ascoltare Martin Luther King che, in piedi alla base del Lincoln Memorial, al termine di una manifestazione sui diritti civili, pronunciava il suo celebre discorso che iniziava con: “I have a dream“.
È il turno di Dudu e del Miche. Prima che salgano la scalinata per il tempio gli spieghiamolo l’importanza del luogo, chi era Lincoln e gli mostriamo il discorso di Martin Luther King su YouTube. Ora possono visitare il memorial.
Dopo un po’ vediamo ricomparire il Miche. Ha il volto bianco e sofferente; si butta a terra piangendo, raccontando di essere caduto di schiena mentre scendeva le scale e di non riuscire a respirare. Lo aiutiamo e ci assicuriamo che respiri correttamente. È decisamente spaventato; per avere difficoltà a respirare bene la caduta deve essere stata violenta. Prima che si riprenda ci vogliono 10 minuti. Per farlo distrarre andiamo tutti a mangiare un hamburger da “Five Guys”, la catena di fast food che serve i migliori hamburger degli Stati Uniti in cui Obama veniva a prendere il suo cheesburger preferito.
Proviamo ora ad andare a ritirare l’auto che utilizzeremo domani per spostarci da Washington DC all’aeroporto di New York. Purtroppo non è ancora rientrata. Una signora gentile ci invita a ripassare alle 18:30. Abbiamo meno di mezz’ora per percorrere, in bici, i quasi sei chilometri che ci separano dalla farmacia della catena CVS pharmacy nella quale abbiamo prenotato gratuitamente il tampone.
Arriviamo ed è praticamente il nostro turno. Sei postazioni per fare i tamponi e dietro un battaglione di persone con dei piccoli macchinari per farne l’analisi. Dopo aver fornito i nostri dati ci viene dato un lungo cotton fioc. Dobbiamo infilarlo in una narice alla volta e compiere, per ciascuna narice, dieci rotazioni, dopodiché consegnarlo al personale sanitario. Io provvedo per me e per Dudu, Micky per se stessa e per il Miche. Dopo circa un’ora il risultato. Tutti negativi! Festeggiamo come per la vittoria del mondiale! Possiamo rientrare in Italia.
Torniamo a prendere l’auto, un enorme e nuovissima Chevrolet Tahoe, che dobbiamo attendere per un’altra ora in quanto chi la doveva riconsegnare è in ritardo. Giusto il tempo per l’ultimo ritocco di shopping.
Finalmente siamo in auto. Andiamo in hotel per a goderci l’ultima serata con Peperoni Pizza di Domino’s.
Prim di andare a letto non ci resta che smontare, le bici chiuderle nelle loro sacche, preparare i bagagli e caricare tutto in auto.
Domani il lungo viaggio per tornare in Italia.