Siamo in una camera del Red Roof PLUS+, una catena di hotel economici degli Stati Uniti, per noi l’hotel delle vigilie. Il Red Roof PLUS+ in cui abbiamo dormito la notte prima di arrivare a Boston, dove è iniziata questa avventura; quello odierno in cui dormiremo prima dell’arrivo a Washington DC.
Ci svegliamo nel nostro monolocale di Bel Air, non il ricco quartiere di Los Angeles nel quale abita Willy, personaggio di una stupenda serie anni 90, ma in una amena zona a una trentina di chilometri da Baltimora.
Dopo una buona colazione ci prepariamo e ci mettiamo in sella. Dobbiamo affrontare una serie di colline per arrivare ad imboccare la solita Pulasky Highway, dalla quale entreremo a Baltimora. La strada è provvista di una ampia corsia per le biciclette, sfortunatamente è piuttosto sporca e piena di detriti, tanto da causare due forature: prima il Miche e poi Dudu. Benedetti siano i copertoni tubless.
I boschi intorno a noi fanno si che si incontrino di tanto in tanto carcasse di animali che si sono spinti sulla strada quali cervi, procioni, scoiattoli e volpi.
Entriamo a Baltimora, la città più importante del Maryland, anche se la capitale risiede a Annapolis. Baltimora è una grande città portuale. Il porto si affaccia nella baia di Chesapeake, un’insenatura dell’oceano Atlantico, il cui nome deriva dalla parola Chesepiooc, che, nella lingua parlata da alcune tribù indiane che abitavano la zona, significa “un villaggio presso un grosso fiume”.
La periferia non sembra povera come quella di Philadelphia. Ai lati della strada le, ormai classiche, case di mattoni rossi di una qualsiasi periferia americana. Una serie di lunghi saliscendi per un attimo ricorda le periferie di San Francisco.
La città non offre spunti interessanti, qui è stata tuttavia combattuta la più importante battaglia della guerra di secessione, durante la quale, Francis Scott Key, avvocato trentacinquenne e poeta dilettante, scrisse The Defence of Fort McHenry. Le parole di quella poesia, dedicata alla bandiera a stelle e strisce degli Stati Uniti, sono oggi quelle dell’inno americano.
È ormai ora di pranzo; mentre andiamo verso il centro della città, iniziamo a guardarci intorno alla ricerca di un locale o un supermercato dove poter mangiare qualcosa.
Sembra tutto chiuso, a parte i soliti fast food dei quali siamo un po’ stanchi. Decidiamo di proseguire ed uscire da Baltimora per fermarci ad un grosso centro commerciale a una decina di chilometri. Li troveremo qualcosa.
Appena oltre il centro uno stradone conduce allo stadio dei Baltimora Ravens, la squadra locale di football americano, che sta disputando proprio in questo momento una partita del campionato NFL. Nell’ampio spartitraffico decine di tende formano un accampamento di fortuna per i senzatetto. Qualcuno sta cucinando, qualcuno seduto nel prato ci saluta vedendoci passare. Questa povertà ci lascia un senso di inquietudine e di profonda ingiustizia. È una cosa che fa male e alla quale non ci si abitua mai a vedere.
Affrontiamo un’altra serie di lunghi saliscendi prima di trovare la Baltimore-Washington Parkway, un vialone che conduce a Washington DC.
Arriviamo al centro commerciale affamati come leoni. Un locale sembra essere di particolare gradimento alle persone del posto. Ci fermiamo. Piatto di pollo fritto con patate per Dudu e il Miche, è un piatto di quelli che sembrano tacos con gamberi per Micky e me; sfortunatamente il piatto si rivelerà un miscuglio di patate fritte, gamberi, cipolla, chili, paprica, salse varie più altri ingredienti non identificabili. Sapore non male, ma certo non il piatto salutare che volevamo pendere.
Una salto da Walmart per comprare la cena e ripartiamo, uscendo dalla strada principale per inoltrarci nelle colline circostanti.
Un ultimo sforzo e siamo in hotel. La signora alla reception, piuttosto scortese, prima ci dice che la colazione prevista non ci sarà servita a causa COVID, poi ci assegna una camera al secondo piano senza a ascensore, per cui dovremo portare le biciclette cariche di bagagli su per le scale.
Mentre prepariamo la cena, a base di uova e insalata, guardiamo strada e previsioni per il giorno dopo. Le previsioni risultano pessime. A partire dalle cinque di mattina è prevista una bufera sull’area che ha il proprio centro proprio tra noi e Washington DC. Google map, i vari siti di meteo, la televisione consigliano di non muoversi dalle abitazioni e, nel caso, di portare in auto cibo, coperte e una torcia.
L’idea di entrare a Washington DC in bici sembra sfumare definitivamente. Io pedalerei fino all’obiettivo, ma non ha senso essere incoscienti; dobbiamo arrivare a Washington DC limitando al massimo i rischi. Cerchiamo una stazione dei treni vicino a noi. La prima più vicina a noi dista circa dieci chilometri, da pedalare tra le colline. Poi altri quindici chilometri per arrivare dalla stazione di Washington DC all’hotel. Soluzione percorribile. Prenotiamo i biglietti e andiamo a letto. Domani capiremo meglio come fare.