È il giorno del rafting sul fiume Trishuli, un fiume che nasce in Tibet e percorre il Nepal fino ad affluire nel Gaṇḍakī e quindi nel Gange, in India. Deve il suo nome al trishula, il tridente del dio Shiva. Fino a qualche anno fa era decisamente inquinato e, quando hanno chiuso l’ultima miniera d’oro è tornato pulito.
È un fiume a tratti impegnativo che offre dei panorami mozzafiato. L’appuntamento è per le 10:30 nella hall dell’hotel, quindi possiamo dormire un po’ di più e fare colazione con calma nel bel giardino.
Un pick-up ci aspetta per portarci nel luogo da dove inizieremo la nostra discesa lungo il fiume. Lungo la strada alcuni operai accovacciati nel mezzo della carreggiata dipingono le strisce o strappano erbacce incuranti delle auto e dei camion che gli sfrecciano accanto. Non so se sia più sangue freddo o incoscienza.
Arriviamo a destinazione. Ad accoglierci Santosh, un ragazzo simpatico e scaltro. Ci conduce negli spogliatoi, raccoglie le nostre borse e le mette nel pick-up in modo da trovarle poi nel punto in cui termineremo la discesa.
Indossiamo i nostri indumenti termici, oltre al casco e al giubbotto di salvataggio che ci vengono forniti. Non ci resta che attendere una persona che si unirà a noi che si presenta dopo qualche minuto.
Si chiama Hari, è un indiano che vive e lavora da otto anni a San Francisco. È simpatico e loquace. Ci racconta della scuola in India e di come i maestri lo picchiassero con un bastone per farlo essere un buon studente, del master a San Jose, del lavoro da programmatore e di come sia ridotta San Francisco dopo anni di leggi troppo permissive sull’uso di droghe.
Un quarto d’ora di briefing per spiegarci i comandi e come comportarci nel caso in cui qualcuno cada nel fiume e partiamo per scendere i 14 chilometri che ci separano dal punto di arrivo.
L’equipaggio è composto da due guide, Niccolò, Michelangelo, Micky, Hari ed io. A supporto Santosh e altri due ragazzi con il kayak. Come ciurma siamo ubbidienti e abbastanza coordinati, muovendoci benino anche nelle numerose rapide.
Una sosta per riprendere fiato a metà percorso ci dà la possibilità di provare il kayak. Niccolò ed io siamo gli unici ad infilarci in questo micro guscio di plastica decisamente instabile. Un breve giro e poi andiamo verso le rapide. Niccolò si capovolge ed è costretto a fare quella che in linguaggio tecnico si chiama “uscita bagnata”, ovvero è costretto sganciarsi dal kayak ed uscire a nuoto.
Sulla riva del fiume si vedono alcune tende improvvisate, costruite con due pali e un telo. Appartengono ai cercatori d’oro che da due mesi, ovvero dalla fine della stagione dei monsoni, vivono accampati lungo il fiume setacciando la sabbia in cerca di qualche pagliuzza d’oro. Un lavoro durissimo svolto in condizioni di vita difficili. Riescono a guadagnare mediamente dalle 30.000 alle 40.000 rupie nepalesi al mese, ovvero dai 200 ai 300 euro, considerando che lo stipendio medio di un nepalese è di circa 350 euro a Kathmandu, mentre meno di 150 euro fuori dalla capitale.
La cosa strizza il cuore è vedere tanti bambini in età scolare setacciare la sabbia lungo il fiume. Non possono permettersi di frequentare la scuola e servono come supporto economico per la famiglia. Il Nepal è un paese bellissimo per la ricchezza dei suoi paesaggi e la cultura del suo popolo, ma è un paese che deve fare i conti con un altissimo tasso di povertà e con un tasso di alfabetizzazione inferiore al 65%.
Terminiamo la discesa. Salutiamo il nostro compagno di avventura Hari, Santosh e tutti i ragazzi del centro di rafting. Prima di tornare in hotel lasciamo i nostri contatti a Santosh che coltiva il sogno di fare l’istruttore di rafting in Italia.
Relax e lavoro fino al momento della cena, servita a buffet insieme ad un numeroso gruppo di rumorosi tedeschi.
Domani di nuovo in sella per raggiungere Bharatpur, altra importante città del Nepal.