Siamo al 13 di Dicembre, il giorno di Santa Lucia, nella tradizione popolare il giorno più corto che ci sia (per i curiosi nota a piè di pagina).
Per noi, al contrario, sarà lunghissimo. Al termine di una giornata di lavoro ci attendono quasi tredici ore di viaggio per arrivare a Kathmandu, la capitale del Nepal, uno Stato tanto piccolo in lunghezza quanto alto.
Dopo mesi di preparazione siamo pronti a partire. Tra studio del territorio, studio della cultura millenaria di questi luoghi, vaccini vari in grado di fornirci una copertura sia dalle malattie endemiche sia da quelle derivanti dalla carenza di igiene o cattiva conservazione dei cibi e qualche prenotazione ci siamo davvero.
Pedaleremo tra Nepal e India, ripercorrendo le tracce di Siddharta Gautama, meglio conosciuto come Buddha. Intersecheremo il percorso con i luoghi simbolo dell’induismo, l’altra grande religione presente in questa parte del mondo.
Un viaggio che si svilupperà tra la pace della natura e la sacralità dei templi, sia buddhisti che induisti.
Un viaggio dalle tinte decisamente forti, per i colori, gli odori, i sapori.
Un viaggio complicato per le condizioni delle strade, le condizioni igieniche, ma soprattutto per la realtà che vive parte della popolazione, la quale ci si presenterà davanti agli occhi come un pugno nello stomaco.
Un viaggio spirituale e allo stesso tempo tanto terreno, dal quale torneremo sicuramente più ricchi e, spero, un poco migliori.
L’appuntamento è all’aeroporto di Fiumicino. Alle 17. Ci troviamo al Terminal 3 Micky, Nicco e il Miche arrivano direttamente da Livorno col treno, io già a Roma per lavoro, arrivo accompagnato da un amico con un furgone carico con i bagagli e le biciclette.
Tutto fila liscio. Personale cordiale e volo in orario. Emirates è un gran bel volare. Arriviamo a Dubai intorno alle 2:30 ore italiane. Tre ore di attesa per la coincidenza per Kathmandu, operata da Fly Dubai, la sorella low cost di Emirates. Ci imbarchiamo dal Gate F che si trova comodamente a circa 40 minuti di pullman dal Gate B, nel quale siamo atterrati.
Dopo qualche controllo sui bagagli ci troviamo in uno stanzone affollato di persone in attesa del primo volo del mattino. La confusione è tale che non riusciamo a chiudere occhio nonostante la stanchezza.
Finalmente ci imbarchiamo. La hostess mi chiede gentilmente se posso spostarmi nella fila attigua all’uscita di emergenza. Mi spiega che è tutta libera e che, nel caso sciagurato, avrò il compito di aprire l’uscita di emergenza per far evacuare l’aereo. Ora siamo tutti più tranquilli. Comunque ho una fila di tre posti tutta per me e un maggiore spazio per le gambe tra i sedili. Il volo è tranquillo ed un po’ riusciamo a riposare. Ora sorvoliamo il Nepal, l’unico stato al mondo ad avere una bandiera non rettangolare; sopra le nuvole svettano le cime innevate della catena dell’Himalaya. Bellissima.
Finalmente siamo a Kathmandu, la capitale del piccolo stato himalayano; una metropoli di circa un milione e mezzo di persone che detiene il triste primato di città più inquinata del mondo. Ad accoglierci un tiepido sole. Una breve trafila per l’ingresso nel paese, il tempo di ritirare i bagagli, montare le bici davanti ad un pubblico particolarmente interessato, e siamo pronti ad immergerci nel traffico cittadino.
La guida è a sinistra, e sulla strada vige la legge della giungla. Immettersi con la bici sulla strada è un’impresa. Un flusso continuo di macchine, furgoni, autobus, moto e motorini di ogni tipo si muove velocemente ed in maniera disordinata, andando ad occupare con prepotenza ogni piccolo spazio disponibile. Quando sentiamo che è il nostro turno ci buttiamo senza esitazione. Stiamo pedalando a Kathmandu! Qui non esistono regole non esiste scuola guida che possa prepararti. Roma nell’ora di punta a confronto sembra una tranquilla stradina di campagna.
Pedalare su queste strade non è una questione di tecnica o di conoscenza del codice stradale, ma ci vuole determinazione, ragionamento e fantasia. Prendi la decisione di immetterti in carreggiata o svoltare quando te la senti, calcoli il momento giusto e misuri gli spazi, disegni traiettorie con la mente e immagini spazi che ora non ci sono.
Le moto montano una grossa armatura in ferro per difendere le ginocchia dagli urti, senza la quale, per come funziona la circolazione, avremmo una città di zoppi e mutilati.
Nel caos si vede di tutto. Una persona sta trascinando un albero col motorino, un’altra trasporta un grosso mobile sulla schiena, sempre in motorino, con la faccia che tocca quasi la strumentazione e la testa leggermente alzata per vedere la strada. Non ci sono semafori, ma la polizia, per come può, cerca di dirigere questo formicaio di mezzi impazziti.
Pochi chilometri percorsi con tanta fatica per adattarsi al luogo e siamo in hotel. Bruttino, con la stanza piena di umidità, ma il personale è gentile e disponibile.
Sono le 18:30 ed ormai è buio da un pezzo. Sistemiamo i bagagli nella camera ed usciamo. Siamo in una zona periferica di Kathmandu, ma vicini a Boudhanath un tempio buddhista tibetano. Divenuto il luogo di culto più importante per i buddhisti tibetani da quando sono stati costretti, nel 1959, a fuggire dal Tibet a seguito della repressione cinese, questo tempio del V secolo era già un luogo sacro sulla rotta commerciale tra Kathmandu ed il Tibet e contiene delle reliquie di Buddha.
È bellissimo per la struttura architettonica, per la simbologia presente in ogni dettaglio, per i riti che vengono celebrati da monaci e credenti. Alcuni monaci tibetani avvolti nel kesa, la loro tipica veste, posizionano delle piccole candele di burro di yak lungo la circonferenza esterna del luogo di culto. Questo rende il luogo ancora più suggestivo. Tutto deve girare in senso orario come il sole. I giri intorno al tempio così come le ruote di preghiera, dei cilindri ruotanti su un asse centrale in metallo o in legno sui quali è inciso in sanscrito il mantra Oṃ Maṇi Padme Hūṃ.
Camminiamo intorno al tempio insieme a monaci e fedeli facendo girare le ruote di preghiera. Si respira un’atmosfera davvero particolare. A controllare l’ordine pubblico sono presenti i poliziotti dotati di un grosso bastone, chiamato lathi, pronti a colpire chi sgarra.
Prima di andare a letto ceniamo in un piccola locanda adiacente al tempio. Ravioli e una zuppa di noddle; tutto davvero tanto piccante. Abbiamo l’impressione che dovremo abituarci a mangiare avendo la lingua anestetizzata.
Siamo stanchi ed è un bel segnale. Con una dormita probabilmente smaltiremo il jet lag. Rimarremo altre due giorni in questa città caotica e colorata prima di iniziare a pedalare verso est.
Nota a piè di pagina
In realtà il giorno più corto dell’anno è il 21 dicembre, per il solstizio d’inverno, ma fino a circa 500 anni fa era proprio il 13 dicembre. Nel 1582, infatti, entrò in vigore il calendario gregoriano, quello che utilizziamo ancora oggi, voluto da papa Gregorio XIII per cancellare le differenze tra il calendario civile e quello solare (detto anche “giuliano” in onore di Giulio Cesare). Papa Gregorio XIII eliminò i giorni dal 6 al 12 ottobre 1582. Così facendo il solstizio d’inverno, che secondo il vecchio sistema cadeva tra il 12 ed il 13 dicembre, passò all’attuale 21 dicembre, che è ufficialmente il giorno più corto dell’anno.