Siamo pochi chilometri dopo Toon, sistemati in una stanza di una casa di campagna giapponese. Una vera casa di campagna del Giappone rurale. Su di noi ha lo stesso effetto avuto su Benigni e Troisi, alias Saverio e Mario, nel film “Non ci resta che piangere” quando si ritrovano nel 1492.
La casa è completamente in legno, rialzata da terra su una specie di palafitta. La nostra camera ha due porte scorrevoli, che non si possono chiudere, una sul giardino e una sulla corte interna. Il bagno è fuori e ci si accede tamite una porticina di legno. È un metro per un metro e c’è un wc appoggiato su una profonda buca con un milione di zanzare per centimetro quadrato. Per poter disporre dell’acqua calda abbiamo una caldaia a legna che deve essere alimentata. Nella doccia una piccola rana ci fa compagnia. Ma va tutto bene.
La giornata inizia alle 7 con la sveglia nella nostra casa di Matsuyama. Colazione e in sella. Prima tappa della giornata, le onsen di Dogo, le più antiche del Giappone, con circa 3000 anni di storia.
La leggenda narra che le sorgenti calde di Dogo siano state scoperte nell’eta degli dei. Un airone posò la sua zampa ferita su una fessura tra le rocce dalla quale zampillava dell’acqua calda. Il potere dell’acqua gli fece guarire la gamba.
A noi si presenta come un edificio a tre piani, simile ad un piccolo castello, comunque in stile tradizionale giapponese. È coronato da una statua raffigurante un airone bianco, per ricordare la leggenda. All’interno ci sono diverse sale con acque calde termali e disegni di aironi bianchi. Nelle onsen tradizionali si sta nudi e gli ingressi sono separati per uomini e donne.
Noi uomini decidiamo di provare una onsen tradizionale giapponese, mentre Micky si visita le gallerie ricche di negozietti nei pressi del complesso. È l’unica occidentale della galleria.
Il Miche, Dudu ed io entriamo e ci inoltriamo in una delle sale. Dei piccoli sgabelli e dei catini ci permettono di lavarci e purificarci, prima di immergerci nell’acqua, caldissima. Il Miche è decisamente a proprio agio, mentre Dudu soffre il caldo. Rimaniamo una mezz’ora nell’acqua a rilassarci, tra gli sguardi incuriositi delle persone, dopo di che ce ne andiamo soddisfatti.
Nel frattempo Micky ha fatto shopping. Zoccoli di legno giapponesi per tutti, un ventaglio con portaventaglio e dei tabi (i classici calzini giapponesi da infradito).
Riprendiamo le bici e ci dirigiamo, attraverso una stradina in salita, verso il tempio Ishite-ji, il cinquantunesimo. Ishite significa “mano di pietra” e trae origine dalla leggenda di un signore di Matsuyama che sarebbe nato con una pietra in mano. Ci sono molte pietre ovunque, di tutte le dimensioni, con preghiere scritte. È il tempio più affollato che abbiamo trovato finora. Noi completiamo il nostro rito, ci facciamo fare i timbri sul libro rosso e giriamo un po’ il tempio, molto bello. Sorge su una collina ed alla sommità domina un enorme statua di Buddha.
Pranzo veloce e poi vistita ad altri due templi con completamento del rito e timbri. Il numero 49, Jōdoji, il numero 48, Sairinji.
Non ci rimane che trovare la nostra casa. Azusa, una ragazza all’ottavo mese di gravidanza, ci sta aspettando. Tredici chilometri costanti di salita, prima dolce, poi più decisa, infine intravediamo una casetta isolata accanto ad non piccolo cimitero. È quella!
Finalmente arriviamo. Azusa e suo marito sono gentili e disponibili, un po’ alternatvi. Lei è un’artista che dipinge tele giapponesi con temi tradizionali. Ha fatto anche una mostra a Bari, con tanto di articolo su Repubblica. Il vivere come se si fosse ancora nell’ottocento però è complicato.
Per cena polpette al sugo e pomodori conditi. Azusa e suo marito mostrano grande apprezzamento per le polpette. Brava Micky. È l’ora di andare a letto. Un po’ d’ansia per la stanza, ma ci addormentiamo presto. Domani ci aspettano trentacinque chilometri e quattro templi.