Dopo aver attraversato il centro dell’Islanda, pedalato nei freddi deserti di lava e ghiaia, tra ghiacciai e vulcani , attraversato fiumi, visitato l’arcipelago delle Vestmann e avvistato le pulcinelle di mare, abbiamo ancora dei sogni da realizzare in questo magnifico viaggio.
Sicuramente, uno è quello di riuscire a vedere le balene. Ci abbiamo già provato a Kaikoura, in Nuova Zelanda (https://labicisifainquattro.it/pedalando-tra-loceano-e-le-montagne/), ma le pessime condizioni del mare ce lo hanno impedito. Noi però siamo dei tipi testardi, pertanto ci riproviamo.
Sono le 6 del mattino. Siamo nella nostra tenda al centro della valle di Herjólfsdalur nell’isola di Heimaey. Il rumore bianco della pioggia sulla tenda ci rilassa. Rimarremmo volentieri al calduccio infilati in un sacco a pelo che avrebbe decisamente bisogno di una bella lavata, ma dobbiamo alzarci.
Il traghetto per il continente, ammesso che la definizione di continente possa andare bene per l’Islanda, parte alle 9:30.
Una bella colazione nella cucina comune ci dà la forza per smontare la tenda e preparare i bagagli sotto una fastidiosa pioggerellina che ha la caratteristica di bagnarci, completamente, senza che ce ne accorgiamo.
Salutiamo il campeggio che ci ha ospitato per due notti e percorriamo i due chilometri scarsi che ci separano dal porto.
I soliti quarantacinque minuti di navigazione e siamo a Landeyjahöfn.
Abbiamo venti minuti per trovare l’autobus che ci porterà a Selfoss, scaricare i bagagli e caricarli insieme alle bici.
L’autobus è fermo al capolinea. L’autista, un tipo normale, mezza età, altezza nella media, capelli brizzolati e i modi gentili ci sorride e scende per una mano.
Un’ora e poco più di viaggio per arrivare a Selfoss.
È mezzogiorno. Una pizza da Domino’s, per fermare la fame, la spesa al supermercato con necessità e vizi per il viaggio, e siamo pronti per andare a prendere l’auto.
Il proprietario dell’autonoleggio, dall’aspetto e i modi di fare che lo fanno sembrare americano, ci permette di lasciare le bici nel salone.
Sistemiamo i bagagli nella nostra Yaris, un po’ datata soprannominata subito “la macchina di Mr Bean”, con la maestria di un giocatore di Tetris. Quando partiamo sembriamo una famiglia degli anni ‘70 che va in villeggiatura al mare con la Fiat 127 carica fino al tetto, tanto che il proprietario dell’autonoleggio ci chiede almeno un paio di volte se siamo sicuri di voler andare a Húsavík ed arrivare in serata. Sono sette ore di viaggio!
Lo tranquillizziamo e partiamo.
Imbocchiamo la solita Hringvegur, chiamata anche ring road, la strada che, seguendo un tragitto ad anello, percorre quasi per intero la costa dell’isola.
La strada non è bella; due corsie, una per ciascun senso di marcia e gran parte dei ponti, specialmente a nord e a est hanno una sola corsia.
Io e Micky ci alterniamo nella guida, Niccolò fa il deejay e Michelangelo guarda il paesaggio. Percorriamo un tratto di strada in cui abbiamo già pedalato, e poi ancora più a nord, tra vulcani, campi lavici, laghi, ghiacciai e profondi fiordi.
Alle dieci di sera siamo a Húsavík. Entriamo nel parcheggio, montiamo la tenda, riusciamo a sistemare ormai tutto in pochi minuti, una cena veloce e a letto. Domani la sveglia è alle 6. Alle 8 dovremo essere al centro per la visita alle balene.
Ci svegliamo alle 6. L’evento è così atteso che nessuno fa storie, nonostante la stanchezza.
Colazione, smontiamo la tenda, carichiamo la macchina di Mr Bean e siamo pronti per il Whale watching.
Al centro per l’avvistamento di balene ci viene comunicata la nostra barca. Salka, una vecchia imbarcazione in legno del 1976 in ottime condizioni.
Prima dell’imbarco un piccolo briefing con la coordinatrice dell’uscita che ci dà istruzioni circa il comportamento da tenere e cosa aspettarsi prima di consegnarci una tuta caldissima ed impermeabile.
Indossata la tuta da astronauta siamo davvero pronti.
Salka molla gli ormeggi e prende il mare. La prima mezz’ora di navigazione niente, a parte delle buffe meduse trasparenti con al centro i contorni viola di un cerchio o un fiore.
Intanto Michelangelo, che soffre anche l’auto, inizia a stare male; ha il viso bianco e gli occhi incavati. Dopo cinque minuti l’epilogo inevitabile: con la testa fuori dalla barca si libera. Ci spostiamo a poppa dove una signora tedesca offre a Michelangelo un chewing-gum per il mal di mare. Piano piano, anche se provato inizia a stare meglio.
Intanto dalla barca si leva un grido che non capiamo subito. Tutte le persone si spostano su un lato.
Ci siamo. Una balena. Io e Nicco ci spostiamo nel lato sinistro della barca, Micky e Michelangelo rimangono a poppa.
La balena, a 10 metri da noi, danza sull’acqua con movimenti armonici e eleganti. Il comandante spenge il motore governando la barca fino ad avvicinarsi alla balena. Oltre a vederla possiamo sentire chiaramente lo sbuffo che emette dal suo sfiatatoio per respirare. Ora è a meno di un metro da noi. Si immerge sotto il pelo dell’acqua passando sotto la barca. Si riescono a vedere chiaramente le pieghe ventrali bianche (quei solchi lungo la gola che corrono paralleli alla lunghezza del corpo, necessari a buttar fuori l’acqua dalla bocca durante la nutrizione).
Piano piano si allontana facendo qualche sbuffo come per salutaci.
L’esperto di cetacei ci parla di ciò che abbiamo visto, distribuendo nozioni scientifiche, e esprimendosi contro la caccia alle balene, che l’Islanda pratica, a favore di una più sostenibile e profittevole attività di whale whatching.
Nella baia di Húsavík si possono incontrare vari tipi di balena: la megattetra, la grande balenottera azzurra, la balenottera comune e la balena Minke. Si lascia al lettore capire quale balena possiamo aver visto noi. Ognuno ha la balena che si merita.
Si è ripreso anche Michelangelo. La barca piano piano rientra in porto. Rimane il tempo di vedere un gruppo di delfini (a dire il vero, scientificamente, è più corretto parlare di un baccello di delfini, ma non me la sento). Sono circa sei. Saltano fuori dall’acqua spostandosi velocemente con la loro classica andatura.
Prima di arrivare in porto veniamo riscaldati e coccolati con una cioccolata calda e un dolcetto alla cannella. Consegnamo le tute da astronauta e sbarchiamo.
Una esperienza bellissima.
Passiamo dal vicino supermercato per pranzare e riprendiamo la macchina di Mr Bean. Ci aspettano altri 400 chilometri di ring road.
Una piccola deviazione e siamo nella zona di Hverir,nei pressi del vulcano Krafla, una delle zone geotermali più attive di tutta l’islanda. Ci fermiamo ad osservare il color ocra del paesaggio e soprattutto le pozze di fango bollente che si distribuiscono lungo tutta la sua superficie. Scendiamo accompagnati da un forte odore di zolfo, con il quale abbiamo imparato a convivere. Un luogo infernale. Il luogo ricorda più l’inferno che questa terra; fango che ribolle in piccoli crateri colonne di vapore bollente protette da coni di pietra che si alzano verso il cielo.
Una mezz’ora di visita e ripartiamo; la strada è ancora lunga.
Ci dirigiamo verso est tra vulcani, e colate laviche fino ad arrivare nell’est dell’Islanda tra fiordi e montagne di roccia che sembrano caderci addosso da un momento all’altro.
Finalmente ad Höfn. Il campeggio, lungo la strada è onesto, anche se una tale Antonella, subito rinominata la contessa Pia Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare, sulla recensione di Trip Advisor gli assegnava un voto miserrimo, lamentandosi di ogni cosa possibile.
Scegliamo un luogo riparato per piantare la tenda, dato che sta piovendo e c’è un forte vento. Decidiamo di metterci al riparo di una siepe, dove una famiglia non troppo pratica si sta cimentando nella stessa operazione.
Ormai montiamo e chiudiamo la tenda in tempi che farebbero invidia ai meccanici della Ferrari. Andiamo a cenare lasciando la famiglia alla loro ardua impresa.
Al mattino non piove più. Il vento è cessato e la pioggia ha lasciato il posto ad un cielo grigio che non lascia ombre a terra.
Andiamo a fare colazione nella sala comune e, nel parcheggio, in un auto comparsa accanto alla nostra macchina di Mr Bean, la famiglia vicina di tenda sta ancora dormendo. Ci vuole il fisico per dormire in tenda in Islanda 😃.
Ci rimettiamo in viaggio. Prima delle 16 dobbiamo riconsegnare l’auto e vorremmo vedere ancora mille cose, anche se è certo che qualcosa dovremo saltare.
La prima tappa è la laguna glaciale Jökulsárlón, una vera meraviglia. Si trova a sud di Vatnajökull, il ghiacciaio più grande d’Europa, esteso quanto l’Umbria.
Grandi blocchi di ghiaccio galleggiano nella laguna in espansione, formata dall’acqua proveniente dal ghiacciaio che si sta ritirando.
Il colpo d’occhio è favoloso. Sembra di essere in una succursale dell’Antartide con tanti iceberg alla deriva.
Scattiamo foto che non potranno rendere mai giustizia al luogo, complice anche il cielo grigio e la luce che appiattisce tutte le immagini.
Lasciamo la laguna glaciale, con una foca che sembra salutarci, per andare nell’altrettanto meravigliosa Diamond Beach, che si trova a pochi metri dalla laguna, una spiaggia di sabbia nera, di origine vulcanica, nella quale sono disseminati blocchi di ghiaccio di varie dimensioni.
Il contrasto tra il ghiaccio trasparente e la spiaggia nerissima enfatizza colori e riflessi, facendoli sembrare come una distesa di diamanti.
È tardi e dobbiamo partire. Vorremmo vedere tanti altri posti da favola, ma il tempo è tiranno. Una lunga tirata ci porta a Selfoss.
Riconsegniamo l’auto, carichiamo le bici e andiamo ad un campeggio, dove condividiamo la piazzola con un gruppo di motociclisti tedeschi.
Cena nella sala comune e a letto. Da domani saremo nuovamente sui pedali.