Negli ultimi anni abbiamo fatto tanti viaggi in bicicletta, in paesi più o meno sicuri. A volte abbiamo dovuto superare situazioni difficili. Oggi, sicuramente abbiamo dovuto affrontare la prova più dura.
Siamo in un luogo non precisato, al sicuro e al caldo, in una specie di teatro degli allevatori delle highland islandesi.
Ci svegliamo intorno alle 6:30 nel campeggio meno organizzato d’Islanda. È freddo, pioviggina e la giornata si preannuncia piovosa.
Siamo un giorno di anticipo sul nostro programma, pertanto sarebbe l’occasione ideale per rimanere chiusi in un bungalow e approfittarne per asciugare vestiti, tenda e ogni singolo oggetto che ormai è umido.
Purtroppo il campeggio non ha bungalow disponibili, e pensare di rimanere tutto il giorno in tenda fermi, non è un opzione, pertanto decidiamo di partire. Ormai siamo abituati a pedalare con la pioggia.
Insieme a noi, in giro per il campeggio, ci sono Stefano e Alessandro, padre e figlio, che abbiamo conosciuto il giorno prima. Anche loro hanno deciso di partire, anzi, sono già in sella.
Alle 8:15 siamo siamo pronti anche noi.
Riprendiamo la strada F208, quella che abbiamo imboccato a Landmannalaugar. Sulla carta ci aspetta una tappa abbastanza semplice. Circa quaranta chilometri, di cui trenta in sterrato, con dei dislivelli impegnativi soltanto nei primi quindici, poi la strada sarà prevalentemente in discesa e pianeggiante.
I primi cinque chilometri, seppur faticosi, scorrono. In alcuni tratti siamo costretti, a causa della pendenza, a spingere le bici, anche se l’operazione sullo sterrato, sotto la pioggia, è tutt’altro che agevole.
Intorno alle 9 si scatena la furia di Odino per chissà quale torto commesso. La pioggia aumenta rapidamente di intensità, fino a diventare torrenziale. Si alza un vento fortissimo e freddo, proveniente da est-nord-est, che a momenti rende quasi impossibile procedere.
Avanziamo lentissimi. Niccolò ed io, al termine di ogni salita lasciamo le bici ed torniamo indietro ad aiutare Michelangelo e Micky, che sono piuttosto provati.
Ormai procediamo prevalentemente portando la bicicletta a mano per la forza del vento, inoltre siamo completamente bagnati.
Decidiamo di fermarci e aspettare che migliori, non appena troveremo un luogo un minimo riparato. La tenda non reggerebbe a questo vento. L’ideale sarebbe una casina di emergenza come quella in cui abbiamo dormito nel deserto di Kaldidalur; andrebbe bene anche una stalla, dato che in giro ci sono numerose pecore al pascolo.
Percorriamo due chilometri scarsi quando vediamo Stefano e Alessandro che stanno montando la loro tenda. Non sembra il posto ideale dove fermarci, ma ci sembra saggio fermarci anche noi. Abbiamo scorte di cibo per almeno due o tre giorni, e loro ci sono sembrati decisamente meno attrezzati di noi, pertanto potremmo aiutarli nel caso siano in difficoltà.
Combattendo con la forza del vento e con la forte pioggia riusciamo a montare la tenda. Spostiamo dentro tutti i bagagli indossiamo vestiti quasi asciutti, prepariamo una minestra in brodo caldo per cercare di scaldarci e ci infiliamo nei sacchi a pelo.
Il vento e la pioggia intanto aumentano ulteriormente di intensità. Dentro la tenda inizia a bagnarsi e fuori il vento fa saltare i picchetti, tanto che dobbiamo uscire ad intervalli regolari a fissarli nuovamente.
Facciamo una riunione per decidere cosa fare. È appena mezzogiorno. Il telefono non ha campo e rimanere in queste condizioni non può essere un opzione. Riteniamo di non essere in pericolo di vita, ma passare una giornata così è stressante e rischiamo di ammalarci per il freddo.
Siamo concordi. Anche se la decisione è stata difficile da prendere è l’unica sensata. Io proverò ad andare a cercare un modo per portare tutti in un luogo caldo e sicuro, mentre Micky rimarrà in tenda con i bimbi.
Comunico la decisione a Stefano che è d’accordo con noi, anche perché Alessandro è nella sua tenda, infreddolito, e non sanno come fare.
Andiamo insieme in strada. Il piano è quello di fermare un fuoristrada che scende a valle. Se ci saranno posti sufficienti scenderemo tutti per poi recuperare la bici, successivamente, altrimenti andremo noi a cercare un modo per portare Micky, Niccolò, Michelangelo ed Alessandro in un luogo al chiuso.
Piove fortissimo e dobbiamo fare resistenza al vento per rimanere fermi.
Rimaniamo venti minuti a fissare una strada vuota, spazzata dal vento e flagellata dalla pioggia. Finalmente in lontananza si vedono le sagome di due jeep con tanto di carrello. Avranno sicuramente posto.
Stefano è cento metri più a monte di me. Si fermano da lui, un minuto e ripartono lasciandolo dove si trova. Arrivano nella mia direzione. Li fermo. Sono una comitiva di turisti francesi. Il conducente della jeep mi dice che non ha posto disponibili e non ha tempo da perdere. Decisamente scortese, ma io insisto, chiedendo di essere portato ad un hotel/campeggio a circa 23 chilometri, quello nel quale avremmo dovuto dormire. Dopo qualche minuto scende e mi fa accomodare nel carrellino, dicendomi però che mi lascerà alla prima casa incontrata.
Mi siedo su una cassa rigida e l’uomo chiude la porta con decisione. Un botto sordo e rimango al buio.
La jeep scende sul terreno dissestato, mentre io mi sento in un frullatore.
Passa circa un quarto d’ora e il mezzo si ferma. La porta del carrello si apre.
L’uomo indica una stalla ad un centinaio di metri di distanza con una un’auto parcheggiata nel piazzale adiacente. Mi dice di andare lì e chiedere aiuto. Gli chiedo di aspettarmi perché nel caso non ci fosse nessuno tornerei alla casella di partenza.
Corro sotto la pioggia verso la stalla. Non ci sono né animali né persone.
Torno alla jeep di corsa per evitare di essere lasciato lì. L’uomo rimane a bordo. Una turista scende e mi apre lo sportello della jeep invitandomi a sedermi tra due ragazzine. Le dico che sono tutto bagnato e posso stare tranquillamente nel carrello, ma la donna insiste. Mi siedo tra le due ragazzine, probabilmente le figlie della donna.
Ormai è lei che comanda. Ordina all’uomo di andare alla casa che si vede a circa un chilometro. Arriviamo. L’uomo e la donna scendono con me.
Suono alla porta. Una villetta bianca con il tetto grigio a spiovente, come tutte le case islandesi. Ad aprire un uomo sulla quarantina. Robusto, capelli biondi, un viso tondo con le guance rosse.
Gli spiego la situazione, con la donna francese a farmi eco. Parlo di cinque persone, di cui tre bambini bloccati in due tende sotto una violenta tempesta. Mi dice che non ci sono problemi e che li recupereremo.
Vengo lasciato in piedi nel corridoio del ragazzo islandese. I francesi tornano alla loro jeep.
Per terra numerose paia di scarpe di bambini, alcune casual altre da calcio. Immagino che abbia almeno due figli.
Il ragazzo dall’espressione seria intanto si è infilato una grossa cuffia con microfono. Parla continuamente al telefono, ma non capisco una parola di quel che sta dicendo in islandese; si ferma un attimo e mi dice, in inglese, che si infila la giacca e andiamo.
Usciamo e saliamo su un pick-up grigio, dove accende subito il riscaldamento. Sono sempre congelato!
Tra una telefonata e l’altra si presenta. Si chiama Petur ed è un volontario della squadra di salvataggio del luogo.
Mi spiega che stava monitorando la situazione perché sugli altopiani c’è una importante cella temporalesca.
In meno di dieci minuti siamo alle tende. Scendo e chiamo Micky e i bimbi che escono immediatamente dalla tenda. Malgrado la situazione difficile erano tranquilli a leggere il libro di leggende e saghe islandesi. Bravissimi. Sono trascorsi circa cinquanta minuti da quando sono salito nel carrello dei turisti francesi. Di Stefano e Alessandro nessuna traccia. Micky mi spiega che sono saliti entrambi a bordo di un’auto lasciando bici e tenda.
Intanto Petur aveva allertato i soccorsi. Nel giro di cinque minuti arrivano altri due fuoristrada, di cui uno con carrello per recuperare le bici. Vedendo solo tre persone chiede delle altre due di cui gli avevo parlato e Micky gli dice che sono andati via con un’altra auto.
Agganciamo il carrello al pickup di Petur, più che sufficiente per portare a valle noi quattro e le bici. Carico le bici sul carrello e partiamo.
È un sollievo vedere Michelangelo tranquillo che ride e scherza mentre scendiamo dagli altopiani a bordo del grosso pick-up. Ha il morale altissimo.
Chiedo a Petur se conosce qualche hotel nelle vicinanze per passare la notte al coperto.
Dopo qualche telefonata ci comunica che gli hotel sono al completo, ma che ha una soluzione per noi.
Una stanza calda dove potremo dormire al coperto, anche se per terra, pagando un piccolo contributo. Accettiamo di buon grado e ringraziamo.
Peter è un allevatore della zona. Una moglie e tre figli, alleva pecore e mucche e durante l’inverno fa anche l’idraulico. Inoltre, e questa cosa ci fa un po’ ridere, percorre 42 chilometri per accompagnare i bambini a scuola e altrettanti per andare a riprenderli.
Si ferma davanti ad un capannone. Apre la porta ed accende il riscaldamento.
È una specie di teatro. Mi spiega che è il luogo dove, durante le lunghe notti invernali, le famiglie degli allevatori della zona si ritrovano per passare il tempo e stare in compagnia.
È fornito di cucina con servizi di piatti e bicchieri con i quali si potrebbe rifornire un ristorante. Una enorme sala con tavoli e sedie impilati vicino ad una parete Due bagni con docce e una e un ripostiglio con almeno cinquanta materassi nel caso in cui non sia possibile tornare a casa.
Chiedo quanto devo pagare per averci recuperato, ma ci dice che è gratuito. Mentre per la notte 14000 corone, poco meno di cento euro.
Petur è preoccupato per Stefano e Alessandro, che forse con un giro di telefonate ha individuato.
Ci salutiamo e lo ringraziamo.
La struttura è grandissima. Possiamo stendere la tenda e appendere tutti i vestiti che abbiamo.
Facciamo una doccia caldissima e ci rilassiamo. Niccolò e Michelangelo posizionano i tavoli al centro della sala e apparecchiano la tavola con gusto ed eleganza.
Cous cous, tonno, purè di patate e fagioli. Si deve festeggiare.
Poi a letto. Domani dovremo comunque spostarci a Vic ed il tempo non promette niente di buono.