Siamo giunti al termine di una giornata sicuramente faticosa, ma altrettanto fantastica, nella quale abbiamo percorso, sotto un benevolo sole, quella in cui siamo concordi essere, la strada più bella del mondo da percorrere in bici.
Chiusi nella nostra tenda, in un orrendo campeggio a Holaskjol, leggiamo il libro delle leggende e saghe islandesi. Fuori la temperatura è di pochi gradi sopra lo zero è un forte vento fa sembrare decisamente più freddo. Oltre a noi ci sono tre o quattro tende per lo più appartenenti a cicloturisti, molte jeep e due camion da spedizione appartenenti a due gruppi di turisti, uno tedesco e uno spagnolo, in cerca della loro personale avventura tra guadi e fango.
Una casina in legno con due bagni piccolissimi, e due lavandini con l’acqua fredda sono gli unici servizi offerti a chi campeggia.
Ci sono alcuni bungalow ed un casolare con trenta posti letto, ovviamente tutto al completo.
All’alba il campo base è già in piena attività tanto da sembrare, per i i colori di persone e tende, un souk di Marrakech.
Verso le 6:30 iniziamo i preparativi anche noi. Nel tendone comune prepariamo la colazione: il caffè con moka, pane e nutella congelata, latte con i cereali. Intorno a noi si preparano frittate, pasta, si ravvivano buste di cibo liofilizzato; ognuno cerca di trovare il proprio comfort per iniziare al meglio la giornata.
Per le 8:30 siamo in sella con l’entusiasmo alle stelle pronti goderci ogni metro di questo percorso.
Ci lasciamo alle spalle il temibile vulcano Hekla, che in islandese significa cappuccio, poiché la cima è sempre coperta dalle nuvole. Oggi splende un sole mai visto finora, tanto che riusciamo a vedere anche la cima.
L’Hekla è sempre stato un vulcano temuto, fin dal Medioevo. Le notizie della terribile eruzione del 1104, che coprì mezza Islanda di cenere, arrivarono in tutta Europa, facendo guadagnare a Hekla la reputazione di Porta dell’Inferno.
Anche il Leopardi più tardi si riferisce alla sua furia nel Dialogo della natura e di un islandese.
Iniziamo la discesa. Una colata lavica grigio scuro ci proietta in un luogo primitivo, quando la terra era un pianeta disabitato.
La strada sterrata, piuttosto impegnativa scorre bene sotto le nostre ruote tassellate. Intorno a noi le montagne sono colorate: dal rosso al giallo, al nero della lava fino alle venature azzurre.
Arriviamo in fondo alla prima valle. Ci troviamo di fronte ad un guado. Siamo preparati. Ai piedi sandali da trekking. Sembra pedalabile, anche se l’acqua è gelata. Micky e il Miche lo attraversano con la bici portata a mano. Io ne testo la pedalabilità. Le gomme affondano in una ghiaia di rocce vulcaniche. Affronto il guado; l’acqua arriva rapidamente oltre metà ruota, tanto che sono costretto a scendere. Poi è la volta di Niccolò.
Superato il guado è il momento di uno spuntino a base di pane e formaggio. Niccolò ne approfitta per fare una ricognizione del territorio con il suo drone.
Proseguiamo il percorso. Le colate laviche sono ora ricoperte da un soffice muschio verde. Un luogo fatato perfetto per elfi e gnomi.
Ripartiamo. Ora il percorso è un susseguirsi di ripide e lunghe salite che ammazzano gambe e fiato e scoscese e dissestate discese che mettono alla prova freni e tecnica.
Ogni valle è attraversata da almeno due o tre grossi guadi con l’acqua gelata. Alla fine ne attraverseremo una ventina.
Alcuni pescatori stanno pescando in un bellissimo lago glaciale.
Lungo il percorso tante jeep, poche moto, pochissimi ciclisti. Incontriamo prima due ragazzi tedeschi che stanno attraversando l’Islanda da nord a sud, poi due italiani, padre e figlio, che stanno facendo un viaggio in bici in Islanda insieme. I ragazzi tedeschi hanno un passo decisamente migliore del nostro, mentre padre e figlio sono un po’ provati dalla fatica.
Prima di arrivare al campeggio, intorno alle 19, c’è il tempo per due cadute. Elegante quella di Micky, che accompagna la bici a terra, ignorante la mia, che vado in terra rovinosamente durante una discesa rotolando per diversi metri.
Arriviamo al campeggio. I due ragazzi tedeschi sono già arrivati.
Chiedo informazioni ad una signora sulla cinquantacinquina, con lunghi capelli arruffati, il viso di chi lavora all’aria aperta e un corpo robusto rassetta i bungalow. Mi dice di rivolgermi a sua figlia in reception, concludendo il discorso con uno strano schiocco fatto con la bocca.
La reception è una stanzina in legno caldissima, con tutto l’occorrente per fare caffè e cioccolate calde. Dietro il bancone lavora la figlia della signora, una ragazzina dai capelli fulvi, con la carnagione chiara e una leggera acne giovanile. I modi di fare sono un po’ sbrigativi. Non ascolta quello che le si sta dicendo ripetendo a pappagallo un copione imparato a memoria. Nel parlare utilizza uno strano schiocco con la bocca come intercalare. Un marchio di famiglia.
Piantiamo la tenda, intanto arrivano la coppia di padre e figlio con le loro biciclette.
Per domani è prevista pioggia. Ceniamo e dormiamo. Domattina vedremo cosa fare.