Siamo a Keflavik, dopo tre giorni di pedalata lungo la costa sud occidentale dell’Islanda. Finalmente dormiremo in un letto vero, dopo aver passato oltre venti giorni per terra dentro un sacco a pelo.
Ci troviamo a poco più di quattro chilometri dall’aeroporto dal quale tra poco più di ventiquattro ore ci imbarcheremo. Ricominceremo il tran tran quotidiano e, inizieremo a pensare al prossimo viaggio. D’altra parte la fine di un viaggio è solo l’inizio di un altro.
Ci svegliamo a Selfoss, felici, dopo due giorni e mezzo di auto, di riprendere la nostra bicicletta. Durante la notte il solito rovescio di pioggia islandese ha fatto sì che la tenda si mantenesse umida, ma ora un timido sole sembra volerci accompagnare nella pedalata.
Compiamo i soliti gesti, ormai meccanici, per smontare la tenda e caricare la bici; poi saltiamo in sella e ci dirigiamo verso sud.
Pedaliamo tra campi di lava e pascoli, con la spensieratezza di una gita domenicale. Una piccola pausa al parco geotermale di Hveragedi per comprare il famoso Volcano bread, un pane cotto sottoterra. È un pane di segale, originario e tipico dell’Islanda il cui impasto è cotto per 24 ore all’interno di un recipiente ermetico sepolto in una sorgente geotermica. È morbido, dolciastro, ma il sapore è buono.
Arriviamo quindi sulla costa. Di fronte a noi per l’ennesima volta l’oceano. Sulla sinistra si vedono le isole Vestmann, che ci sono rimaste nel cuore; noi invece giriamo a destra. Mancano gli ultimi sedici chilometri e un po’ di vento rende un po’ faticoso il procedere.
Prima delle 16 arriviamo al campeggio dove dormire. Siamo vicini alla chiesa Strandarkirkja, una piccola chiesa parrocchiale luterana, luogo di ex voti. Si dice che se sei in pericolo puoi girarti verso nella direzione della chiesetta ed otterrai il supporto richiesto.
Il luogo in cui dormiremo è un’area di campeggio libera. Un bel prato, qualche tavolo con le panchine, due bagni puliti e riscaldati e una stanza dove cucinare. Nei bagni un cestino contiene delle uova fresche della vicina fattoria; 10 corone (70 centesimi) per ciascun uovo da mettere in una piccola scatola di legno. La cucina, come tutte le cucine dei campeggi in cui abbiamo dormito, ha ogni tipo di genere di conforto lasciato dai viaggiatori, magari all’ultimo giorno di viaggio.
Siamo solo noi. Ci sembra subito il luogo ideale dove passare la notte.
Piantiamo la tenda in un luogo riparato non senza difficoltà, a causa di Eolo, che, in combutta con Odino ha deciso di farci volare via. La temperatura si sta decisamente abbassando.
Ci copriamo ben bene e percorriamo poche decine di metri dove sorgono due casine di legno colorate. Una fa la funzione di una specie di bar e l’altra ospita un negozietto che vende oggettistica usata e maglieria fatta a mano.
Entriamo nel piccolo negozio. Due signore anziane stanno chiacchierando mentre lavorano a maglia. L’immagine che se ne ha è di un quadro di un’altra epoca. Ci invitano a guardarci intorno. Facciamo un giro curiosando tra gli scaffali dove c’è davvero di tutto. Dalle posate ai giochi, dai libri ai vestiti, dalle decorazioni natalizie ai soprammobili, tutto disposto rigorosamente a caso e senza un ordine preciso. La maglieria, di una lana che buca e irrita la pelle solo a guardarla, è bella per motivi e colori.
Salutiamo, ricevendo indietro lo stesso saluto, e andiamo nella casetta accanto.
Dietro al bancone un signore alto e robusto, il cui aspetto ricorda un guerriero vichingo. Un uomo sulla sessantina con una lunga barba bionda, un viso vissuto, gli occhi piccoli e penetranti e una pelle rossa tanto da sembrare eternamente scottata dal sole. Chiediamo una Coca Cola Zero per Micky, un hot dog per Michelangelo e un waffel con nutella per Niccolò. Un uomo burbero nell’aspetto, ma gentile nei gesti, tanto che che dopo aver preparato quanto richiesto, mentre siamo seduti al tavolo, impegnati in una avvincente partita al “Gioco dell’Oca”, ci raggiunge per lanciare, letteralmente, due lécca-lécca sul tavolo. Un gesto carino che ci fa ridere per le modalità brute col quale è stato eseguito.
Raggiungiamo la tenda e ci mettiamo al riparo. Ora è decisamente freddo. Il prato inizia a popolarsi di tende colorate e van. Una signora tedesca sta portando gli ultimi avanzi di cibo nella dispensa per i turisti. Offre a Michelangelo delle patatine e ci chiede se abbiamo bisogno di qualcosa. Prendiamo un po’ di formaggio da aggiungere alla pasta in brodo, un dolcino per dessert e ringraziamo. Il resto può portarlo nella dispensa.
Una cena a base di brodo caldo con pasta e uova ci riscalda, poi ci lasciamo coccolare dal nostro sacco a pelo puzzolente.
La mattina ci svegliamo con un gran baccano. Usciamo dalla tenda assonnati. Nei pressi della cucina un gruppo di ragazzi olandesi sta facendo colazione e ballando “These Boots Are Made for Walkin’” un brano pop del 1965, il cui ritmo rende impossibile stare fermi. Facciamo colazione contagiati dall’allegria, anche se un vento nordico, freddo e impetuoso, proveniente da nord nord-ovest, spazza il campeggio. Impieghiamo quasi due ore per prepararci. Chiudere la tenda nella sacca è un’impresa; ad ogni tentativo di piegarla si gonfia come uno spinnaker.
Riusciamo a prendere la strada. Pedaliamo i quarantacinque chilometri più difficili, dal punto di vista dello sforzo fisico, del viaggio. Il vento, che ci spinge nel mezzo della carreggiata, rende quasi impossibile procedere. Le bici sono inclinate di 45 gradi per opporci al vento. Io cerco di parare il vento a Michelangelo; dietro Micky e Niccolò. Sfiliamo accanto ad un lato e poi nei pressi di una distesa di sabbia; i granelli sollevati dal vento ci bucano le guance come degli aghi.
Le soste sono numerose. Accovacciati vicino alle bici riprendiamo fiato o mangiamo qualcosa, inoltre Niccolò ha un gran mal di testa, probabilmente dovuto proprio al vento.
Non ci arrendiamo. Vogliamo arrivare a Grindavik, una piccola cittadina della costa meridionale nella penisola di Reykjanes. Non c’è niente di interessante in quanto è prevalentemente portuale nonché uno dei più importanti centri ittici dell’Islanda. Tuttavia è il villaggio più vicino al luogo dell’eruzione del vulcano Fagradalsfjall e noi vorremmo riuscire ad andare a visitarlo. Sono le tre del pomeriggio, un’ultima salita controvento e poi una lunga discesa ci condurrà a Grindavik. Lungo la salita tre parcheggi da cui partono i sentieri che, con circa due ore di camminata, conducono sul luogo dell’eruzione.
Il nostro obiettivo è quello di arrivare il prima possibile al campeggio, montare la tenda e verificare come sta Niccolò. Se si sentirà bene, armati di torce andremo sul Fagradalsfjall per essere lì poco prima che faccia buio. Potremo così vedere l’eruzione sia di giorno che di notte. Arriviamo al campeggio e montiamo la tenda per dare modo a Niccolò di riposarsi un po’. Un’aspirina, uno spuntino e al calduccio nel sacco a pelo. Nel giro di mezz’ora sta bene.
Nella sala comune del campeggio mi informo su quale sia il miglior sentiero per vedere l’eruzione in atto.
Le eruzioni dei vulcani islandesi in linea di massima non sono pericolose. Il vulcanismo islandese è di tipo fissurale. La lava non fuoriesce da un cratere ma da una spaccatura che si apre nel terreno, generata dall’allontanamento della placca nordamericana da quella euroasiatica.
Per questo motivo la popolazione reagisce con entusiasmo; molti ragazzi si recano in massa sul luogo dell’eruzione per guardarla e fotografarla e in tantissimi fanno volare il loro drone per dei video meravigliosi. Quello che vorremmo fare anche noi!
Purtroppo i facili entusiasmi vengono subito sopiti. L’eruzione non è più attiva da quattro o cinque giorni. Quello che si può vedere è una colata di lava nera ancora fumante, un panorama che, dopotutto, ci è abbastanza familiare. Niccolò, eccitato dall’idea di andare sul vulcano con il proprio drone, è quello che la prende peggio di tutti. È davvero un peccato, ma dopotutto l’Islanda ci ha già dato tanto.
Decidiamo di rimanere in campeggio. Ci rilassiamo e ceniamo presto. Domattina decideremo se andare comunque a visitare una colata di lava nera o proseguire.
Ci svegliamo la mattina con un sole stupendo. L’entusiasmo per il vulcano ci è passato e non abbiamo alcuna voglia di andare a vedere una cosa che non riuscirà ad emozionarci come avremmo voluto. Decidiamo pertanto di prendere le bici per l’ultima volta in questa magnifica isola, percorrendo il tratto di costa che conduce verso l’aeroporto.
Il sole splende e la temperatura è piacevole. Dopo averci messo duramente alla prova con pioggia, vento e tempesta, sembra che Odino abbia riconosciuto il nostro spirito da guerrieri e voglia renderci onore. Per la prima volta pedaliamo in pantaloncini corti e maglietta. Il percorso è un susseguirsi di saliscendi non troppo impegnativi che ci accompagnano a visitare delle aree di interesse turistico nella bella penisola, una delle zone geologicamente più giovani dell’Islanda.
CI fermiamo presso il faro di Reykjanesviti un faro davvero pittoresco, posizionato su un piccolo colle, che domina un’alta scogliera a strapiombo sul mare, È stato costruito nei pressi delle solfatare di Gunnuhver che prendono il nome da una antica leggenda islandese.
Nei dintorni di quest’area si aggirava una donna fantasma, conosciuta con il nome di Gunna. Gunna viveva nella casa di un avvocato quando improvvisamente smise di pagare l’affitto. L’avvocato le portò via la sua unica proprietà: una pentola per cucinare. A seguito di questo evento Gunna impazzì rifiutandosi di mangiare e bere fino alla morte. Durante il funerale l’uomo che trasportava la salma nella bara si accorse che questa era diventata estremamente leggera, e, mentre veniva scavata la fossa le persone iniziarono a udire una donna che gridava “non c’è bisogno di scavare tanto in profondità, tanto non ci rimarrò a lungo!”. Era la voce di Gunna che si era trasformata in uno spettro. La notte successiva venne rinvenuto il corpo dell’avvocato in mezzo ai campi. Era blu e con le ossa rotte. La vendetta di Gunna era stata compiuta!
Nel giro di poco tempo fu trovata morta la moglie dell’avvocato, altre persone diventarono pazze e altre ancora morirono dopo aver visto il fantasma di Gunna! La popolazione terrorizzata chiamò un esorcista che trovò la soluzione: diede loro un gomitolo di lana. Gunna si incuriosì afferrandone una delle estremità; a quel punto il gomitolo venne lanciato dentro alla grande caldara e, Gunna, seguendo il gomitolo, vi precipitò dentro. Si dice che alcune persone vedono ancora Gunna girare intorno al bordo del cratere e urlare ripetutamente come quando vi precipitò all’interno.
Riprendiamo le bici e ci fermiamo presso la faglia di Reykjanes che taglia la penisola a metà. Guardando verso est la faglia arriva al sistema vulcanico di cui fa parte il Fagradalsfjall, dove fino a pochi giorni fa era possibile ammirare l’eruzione. Se ci voltiamo verso sud-ovest prosegue sotto l’oceano costituendo la faglia medio atlantica, che per migliaia di chilometri, prosegue la sua strada, prima tra l’Europa e l’America, poi tra l’Africa e l’America fino ad arrivare alla placca Antartica.
Qualche foto sulla faglia e pranzo a base di pane e formaggio, seduti sulle rocce laviche al sole. Allo spettacolo del panorama si aggiunge un vivace litigio tra un’auto ed un camper che si incastrano lungo una strada strettissima.
Da qui tutta una tirata fino alla Guest House dove dormiremo. Domani ci sposteremo in aeroporto per il rientro.