Ci svegliamo a Suwon di primissima mattina. Fuori è ancora buio; il sole inizia a sorgere verso le 7:30. Ci prepariamo e scendiamo a fare colazione. La sala è deserta e una signora sta ancora allestendo il buffet. La colazione non è internazionale, ma tipicamente coreana.
Sul bancone sono disposti vari piatti caldi, simili a quelli che si potrebbero mangiare a pranzo o a cena. In ordine di posizionamento sul bancone troviamo:
- Bap (밥): riso bianco cotto a vapore;
- Miyeok Guk (미역국): zuppa di alghe, leggera e saporita;
- Jeon (전): frittelle di patate e verdure;
- Jangjorim (장조림): manzo stufato in salsa di soia con verdure, sia in versione piccante che non.
A seguire ci sono i contorni:
- Kimchi (김치): il famoso cavolo fermentato e piccante, immancabile sulla tavola coreana;
- Namul (나물): verdure saltate o marinate, alcune delle quali a noi completamente sconosciute;
- Uova strapazzate: che da noi sarebbero considerate un piatto principale.
Infine qualche cereale, latte, caffè e tè. Assaggiamo praticamente ogni pietanza. Trovo che la zuppa di alghe sia buonissima e la prendo tre volte. Dopo una colazione così ricca e abbondante siamo pronti a metterci in viaggio.
Attraversiamo il centro storico e ci ritroviamo nella parte moderna di Suwon, fatta di grattacieli e centri commerciali. Non potrebbe essere altrimenti, visto che Suwon è conosciuta anche come la “Città di Samsung”, ospitando il quartier generale globale di Samsung Electronics, che dà lavoro a migliaia di persone, generando ricchezza e benessere in tutta la regione.
Lasciamo gradualmente la città e ci immergiamo nella campagna coreana. Pedaliamo lungo stradine sterrate e innevate, circondati da campi coltivati ormai gelati e da allevamenti di bestiame. L’aria è fresca e pungente; regna una calma interrotta solo dal passaggio di qualche trattore. Torrenti e piccoli fiumi scorrono lentamente, parzialmente congelati.
Vicino a piccoli villaggi, notiamo diversi cantieri che stanno mettendo in sicurezza gli argini dei fiumi in previsione della stagione delle piogge.
Quando è ora di pranzo, ci fermiamo in un GS25, una delle tante catene di convenience store della Corea del Sud, simile a 7-Eleven, CU ed Emart24. Questi negozi, già incontrati in Giappone e negli Stati Uniti, sono ovunque: dalle grandi città come Seoul ai villaggi più remoti. Sono aperti 24 ore su 24, 7 giorni su 7, e vendono praticamente di tutto:
- Snack coreani: ramyeon (noodles istantanei), gimbap (rotolini di riso), tteokbokki (gnocchi di riso piccanti), patatine e dolci locali.
- Piatti pronti da scaldare: dosirak (lunch box assortiti), riso fritto con kimchi, spaghetti coreani, hamburger e hot dog;
- Bevande calde e fredde: da tè tradizionali a caffè;
- Oggetti vari: dalle mutande, ai caricabatterie, dagli spilli da balia al gas per fornelli da campeggio.
C’è anche uno spazio per mangiare, con sgabelli e un bancone con vista sulle bici parcheggiate fuori.
Riprendiamo la strada, ma una stretta via sterrata improvvisamente finisce, costringendoci a spingere le biciclette attraverso campi innevati e ripidi argini. L’impresa è faticosa, ma alla fine arriviamo alla nostra destinazione: una piccola casetta di legno dispersa nella campagna coreana.
Ad accoglierci troviamo Chloe, una ragazza fortunosamente a casa dai genitori per il weekend, che parla perfettamente inglese. È la responsabile dell’ufficio acquisti di una multinazionale di materiali elettrici a Seoul.
La casetta è semplice ma accogliente: una stanza unica con un piccolo frigorifero e un fornello. Per dormire c’è il classico futon coreano (yo) da stendere sul pavimento riscaldato (ondol).
Nei dintorni non ci sono ristoranti, così Chloe ci offre l’aiuto di suo fratello, che si improvvisa autista personale e si propone di accompagnarci in un ristorante tradizionale a pochi chilometri di distanza.
Mentre ci prepariamo e facciamo una doccia calda ristoratrice, Chloe ci prepara del tè caldo e dei gimbap appena fatti, ripieni di uova e verdure. Saliamo in macchina del fratello. La conversazione per quanto si sia volenterosi è praticamente assente, dato che parla soltanto coreano.
Dieci minuti e siamo di fronte a un piccolo ristorante gestito da una signora minuta con occhi sorridenti e un’espressione gentile. Ci accoglie con un profondo inchino e ci accompagna al tavolo. Fortunatamente il menù, scritto in coreano, è fisso e con due sole opzioni. Scegliamo quella più completa per poter assaggiare una varietà di pietanze.
La cena è composta da una serie di banchan (반찬), piccoli contorni che accompagnano i piatti principali a base di riso, carne, pesce, verdure e zuppe. Alcuni sapori sono piacevoli; altri sono decisamente troppo forti per i nostri palati, come dei molluschi sconosciuti ricoperti di una salsa pungente, che allontaniamo rapidamente dal tavolo. Una sorta di zuppa di tofu frullato dall’aspetto e dall’odore sgradevole completa l’elenco delle nostre “sfide culinarie”.
Al termine della cena, inviamo un messaggio a Chloe su KakaoTalk, l’app di messaggistica più usata in Corea, e dopo dieci minuti suo fratello è di nuovo fuori ad aspettarci.
La giornata è stata intensa. Torniamo alla casetta stanchi ma felici, pronti per un’altra gelida avventura nella campagna coreana.