Dopo giorni in cui non si vedevano che aree urbane, più o meno grandi, oggi abbiamo finalmente pedalato nella campagna indiana. È meno verde di quel ci saremmo aspettati, ma probabilmente è dovuto alla stagione.
Ci svegliamo a Varanasi decisamente presto. Oggi ci aspetta una tappa lunga di circa 90 chilometri. Dopo colazione usciamo. Fuori dal nostro hotel salutiamo i tre cuccioli di cane che dormono stretti stretti su un cumulo di spazzatura. I cani randagi sono moltissimi, tutti magri, pulciosi, alcuni con evidenti zone del corpo a carne viva; sono sempre alla ricerca di qualcosa da mangiare tra i rifiuti. Come i cani anche le capre e le mucche intente a grufolare tra buste e avanzi, insieme a qualche topo che, furtivo, si aggira nei dintorni per poi sparire.
Ci districhiamo con pazienza nel traffico ormai incuranti del rumore del clacson e attraversiamo il Gange. Durante questo viaggio non lo rivedremo più. Dopo circa dieci chilometri siamo fuori da Varanasi ed imbocchiamo una superstrada, nell’accezione di quello che possono essere le strade indiane: mezzi contromano e animali che si aggirano tra le corsie. Intanto continua l’interesse nei nostri confronti con i soliti selfie e video come se fossimo star di Bollywood.
Ci fermiamo in un paese lungo la strada. Un topo scorrazza liberamente tra la gente prima di gettarsi in un buco. Entriamo in una pasticceria per non mangiare per strada i soliti samosa fritti chissà in quale olio. È innegabile che un viaggio di questo tipo in India necessiti di spirito di adattamento e non si può essere troppo schizzinosi. Prendiamo dei dolci al cioccolato buonissimi che gustiamo tranquillamente seduti sul marciapiede.
Riprendiamo il viaggio ritrovandoci immersi nella campagna indiana. I terreni sono secchi e polverosi. Il lavoro nei campi è svolto senza ausilio di mezzi, poiché costosi, e principalmente da donne. Avvolte nel loro coloratissimo sari trasportano grandi fasci di paglia sulla testa, battono a terra le spighe per ottenere i semi e li stendono ad essiccare al sole. Lavori faticosissimi, spesso fatti con i bambini che giocano tra covoni di fieno o aiutano le madri. Il nostro passaggio è una occasione per staccare un attimo, prendere fiato, regalarci un sorriso o mettersi in posa per una foto. Le condizioni sono dure, ma nei volti di queste donne si trova sempre un sorriso.
Lungo la strada le donne o le ragazzine che non lavorano nei campi impastano sterco di mucca e paglia, ne fanno dei dischi che mettono ad essiccare al sole. Questi dischi sono utilizzati sia come combustibile, per scaldarsi e cucinare, sia come isolante da mettere sui muri delle case e delle baracche. Gli uomini guidano i trattori o fanno i muratori insieme a tante muratrici.
Davanti a noi un posto di blocco. Alcuni militari in uniforme marrone chiaro e con i fucili in pugno ci indicano di fermarci. Ubbidiamo e ci accostiamo sul lato di questa stradina di campagna. È il confine tra lo stato di Uttar Pradesh e il Bihar, uno degli stati più poveri dell’India. Le solite domande “Chi siete? cosa portate? Ma quanti siete? Un fiorino!”, per poi chiederci un selfie a turno. Uno ad uno i militari si mettono in posa. Sorrisone e via, avanti il prossimo.
Pedaliamo godendoci davvero il paesaggio, senza l’incubo del traffico, tra mucche, cavalli azzoppati, anatre e galline. All’ora di pranzo arriviamo in un piccolo villaggio. Parcheggiamo le bici e subito una folla si raduna intorno a noi con i cellulari in mano. Tra di loro si fa spazio un signore sulla settantacinquina basso, grassoccio, con i capelli brizzolati e i baffi; ha le mani segnate come quelle di chi ha lavorato una vita.
Si avvicina con aria solenne e severa. Parla indi stretto e, aiutato da un ragazzino che fa da interprete, ci dice che è il capo villaggio. Prende un foglietto mezzo strappato dove annota i nostri nomi, la provenienza, il percorso e dove siamo diretti poi, soddisfatto, chiede se vogliamo colazione o pranzo. Desideriamo solo della spremuta di arance e melograno. Si avvicina ad un banchetto della frutta, ordina quattro spremute e ce le porge. Siamo suoi graditi ospiti e qualsiasi cosa vogliamo non dobbiamo che chiedere a lui. Noi, a dir la verità, ci sentiamo di aver già chiesto troppo.
Niccolò intanto fa volare il drone tra la curiosità di tutti. Qualche foto ricordo dall’alto e ripartiamo.
Ora è tutta una tirata fino a Babua, una piccola cittadina e ovviamente confusionaria. Arriviamo all’hotel. Prima di prendere possesso della camera un quarto d’ora di selfie con le persone del posto poi possiamo entrare. È decisamente bruttino e sporco, ma non ci sono grosse alternative. Le persone sono gentili e disponibili, a parte un dipendente che più volte entra in camera senza bussare con qualsiasi scusa. L’obiettivo è soltanto quello di chiedere la mancia. Pronuncia insistentemente “money, money” allo stesso modo in cui Muttley, il celebre came di Dick Dastardly in un cartone animato anni 80 chiedeva una medaglia.
Dopo aver spiegato a Muttley che non si entrara in camera andiamo a cena nel ristorante sotto l’hotel. Mangiamo sempre le stesse cose, ma ci stiamo abituando a questi sapori.
Domani una tappa semplice che ci permetterà di prendercela con tranquillità e fare più fotografie.