L’uscita dalla città è, come al solito, caotica, ma abbiamo imparato a vivere di prepotenza. Ci infiliamo negli spazi come se fossimo cresciuti in India. La giornata ci riserva subito una sorpresa. Sulla nostra destra un enorme statua di Shiva, forse la divinità più venerata dell’induismo; ci fermiamo per qualche foto e per un giro furtivo con il drone.
In pochi chilometri ritroviamo la campagna: ci fa riposare la testa e le orecchie. Pedalare nel mezzo ai campi intervallati da villaggi che ancora non hanno conosciuto la modernità è indescrivibile. Bambini che scorrazzano in giro, madri che lavorano davanti a casa stendendo i semi ad asciugare.
Le donne delle campagne hanno il sindoor più arancio rispetto a quello rossissimo che abitano nelle città. Il sindoor è una polvere cosmetica tradizionale di colore rosso o arancio indossata dalle donne sposate lungo la riga dei capelli. Viene applicato per la prima volta alla donna dal marito il giorno del matrimonio con una cerimonia particolare, dopodiché è la donna che ogni giorno se lo applica sui capelli. Se dovesse rimanere vedova non lo applicherà più.
La vita è sicuramente dura, le case sono più umili e le persone vivono sempre sul filo tra povertà assoluta e sopravvivenza; tuttavia per quello che vediamo e percepiamo nelle campagne c’è meno degrado rispetto alle persone dimenticate delle città. Meno rifiuti, meno caos, meno persone che mendicano.
Attraversando questi luoghi si assiste a scene di vita quotidiana di un mondo che da noi è ormai scomparso come una ragazza che fa il bucato al fiume. Usciamo dalla campagna per percorrere gli ultimi chilometri in autostrada che ci condurranno ad Aurangabad.
L’ingresso in città è poco dopo l’ora di pranzo e non abbiamo ancora mangiato. Sulla strada un Domino’s Pizza. Accostiamo le bici ed entriamo. Riflettiamo sul fatto che tre pizze grandi e quattro bibite in una catena di fast food che fa pizza possono arrivare a costare circa un decimo dello stipendio medio di un indiano. Non un pasto alla portata della maggior parte delle persone.
Poco distante l’hotel. Per gli standard del luogo è uno dei migliori in cui abbiamo dormito. Siamo vicini ad un grande mercato che vende un po’ di tutto, quindi lasciamo i bagagli e usciamo per un giro. Una spremuta, qualche regalo tra la curiosità dei locali e tanti selfie. Sono giorni che non vediamo un occidentale.
Un bambino di avvicina per chiedere l’elemosina. È un Dalit, un intoccabile, avrà circa 9 anni, è vestito con indumenti di fortuna, una maglia strappata ricucita con uno spago, la testa rasata probabilmente a causa dei pidocchi e uno sguardo spento che un bambino della sua età non si merita. Anche se ufficialmente abolito, il sistema delle caste è ancora presente nella cultura indiana. La religione induista, credendo nella reincarnazione, nel tempo ha contribuito a preservare il sistema delle caste, quasi legittimandolo e contribuendo a renderlo socialmente accettabile. Infatti secondo l’Induismo se un individuo nasce in una certa casta, questo è il frutto del suo comportamento, delle sue azioni, del suo Karma nella vita o nelle vite precedenti.
Micky gli si avvicina e cerca di parlare con lui, per capire come poterlo aiutare. Comprargli del cibo, dei vestiti nuovi, comunque qualcosa che non potrebbero togliergli. I soldi non rimarrebbero nelle sue tasche. Una folla di persone inizia a urlare a questo ragazzino ed a spintonarlo, mentre Micky si schiera subito a sua difesa dicendo che non ci sta importunando. Il bambino si spaventa e scappa, Micky prova a corrergli dietro, ma è troppo veloce.
Torna arrabbiata con le persone, che nel loro modo sbagliato volevano solo proteggerci e molto sconsolata per non essere riuscita a trovarlo. Una frustrazione che porta un pianto a dirotto. Voler aiutare un bambino e non esserci riuscita. Passiamo circa un’ora a cercare il piccolo senza successo prima di tornare in hotel col cuore pieno di tristezza. In certi luoghi ti accorgi più che in altri quanto il mondo non sia giusto.