Siamo a El Jadida, piccola cittadina fondata dai portoghesi affacciata sull’Atlantico.
Alloggiamo in un onesto bed and breakfast all’interno della vecchia città portoghese, conosciuta anche come Fortezza di Mazagan. Niente di elegante o moderno. Una vecchia casa in cui sono state ricavate delle piccole camere, spartane, per gli ospiti.
Ci svegliamo intorno alle 8 nel bellissimo appartamento all’interno del compound. Le bici lasciate per strada erano al sicuro, controllate h24 dalla vigilanza e un sistema di video sorveglianza che osserva costantemente ciò che avviene dentro e fuori del compound.
Colazione, preparazione dei bagagli e per le dieci siamo in sella.
L’influenza ci ha lasciato una brutta tosse e un po’ di raffreddore, ma iniziamo a stare meglio e si vede. Le gambe girano bene e iniziamo a macinare chilometri senza accorgercene.
Rimaniamo paralleli all’oceano, ma un pochino più nell’interno. Viaggiamo in campagna tra boschi e campi coltivati. La strada un po’ dissestata è pianeggiante. Percorriamo i primi trenta chilometri senza neanche accorgercene. Ci fermiamo in un piccolo villaggio. Qualche casa un benzinaio, un negozietto che vende i panini e una specie di bar enorme, ma vuoto. Niente da mangiare. Niente gelato. Niente in mostra. Solo caffè e tè.
I bimbi prendono un panino al negozietto con cipolla e qualche molecola di tonno, poi un tè alla menta per tutti da gustare in tranquillità.
Dopo una lunga sosta ripartiamo per fare gli altri trentacinque chilometri che ci separano da El Jadida.
Entriamo dentro la città portoghese ed un ragazzo ci aiuta a trovare il nostro bed and breakfast. Nella porta c’è scritto: “casa del gatto”.
Suoniamo. Attendiamo qualche minuto davanti alla porta. Forse non c’è nessuno. Dopo un po’ ci apre una signora sui quaranta in accappatoio bianco. È alta, curata, i capelli raccolti ed il viso triste. Parla italiano, o meglio parla veneziano. Ci mostra le camere. Due. Una tripla e una singola. Anguste, buie con giusto l’essenziale: un letto e un comodino.
Facciamo un po di conversazione, mentre ci mostra i servizi, pochi, della casa. Le chiediamo se è mai stata a Venezia; una domanda quasi retorica, che si aspettava una risposta scontata. Spiazzandoci un attimo risponde che non è mai stata in Italia, ma che la lingua l’ha imparata dal marito, Massimo, gondoliere in pensione, deceduto venti giorni fa. Poi inizia a piangere. Pessima idea di conversazione. Porgiamo le condoglianze.
Sistemiamo bici e bagagli e usciamo. Prima tappa il mercato. Lì Michelangelo e Niccolò prendono il solito panino con pollo, cipolla e spezie varie, io una spremuta di melograno, Micky una spremuta di arance. Dopo il mercato andiamo sulla spiaggia per immergere i piedi nell’oceano; l’acqua è meno fredda di quanto ci saremmo aspettati.
Ci inoltriamo ora dentro la Città Portoghese, Patrimonio dell’Umanità Unesco. Fu fondata dai portoghesi nel tardo Cinquecento con funzioni difensive, rappresenta uno dei loro primi insediamenti nell’Africa occidentale.
Le mura e i bastioni racchiudono un labirinto di viuzze con case non proprio conservate bene, negozi di artigianato i cui proprietari fanno di tutto per convincerci, invano, ad entrare qualche monumento di rilevanza storica come la cisterna portoghese, una cisterna sotterranea con volte in pietra costruita nel tardo Cinquecento.
Una doccia al nostro bed and breakfast e poi fuori a cercare di mangiare qualcosa. Michelangelo insiste per fermarci in un localaccio che vende totani fritti. Avremmo in mente altro, ma lo accontentiamo. Due ragazzi gentilissimi ci servono quattro piatti unici con riso, totani freschissimi fritti sul momento, insalata due peperoncini mortali e una salsa di pomodoro a parte.
A parte l’errore di azzannare uno dei due peperoncini mortali, davvero un’ottima cena. Il tutto per 100 Dirham, ovvero dieci euro complessivi.
Un gelato in una vicina gelateria e a letto.