Tempi duri per viaggiare. Proprio in questi giorni l’Italia sta affrontando la quarta ondata di COVID, e gli altri paesi non sembrano stare meglio.
Dopo una settimana di isolamento per evitare possibili contatti infetti, aver fatto i tamponi propedeutici per la partenza, aver compilato un’infinità di moduli, aver dimostrato di essere vaccinati, aver salutato con sofferenza i nostri gattini, Meo e Brivido Cosmico, che ci aspetteranno a casa e ai quali abbiamo assicurato una costante compagnia, sta iniziando una nuova avventura in bici.
La sveglia assassina è puntata sulle 3:45. Alle 4:45 siamo pronti. Viaggiamo su due auto in direzione casa di Roma, dove, una volta parcheggiate verremo accompagnati in aeroporto.
L’aeroporto di Leonardo Da Vinci è stranamente poco affollato. Non dobbiamo fare alcuna coda; tutte le operazioni sono eseguite velocemente e il tempo per i vari controlli è insolitamente breve, tanto che siamo invasi da una strana angoscia.
Finalmente saliamo a bordo di un nuovissimo Airbus 331-neo della Aer Lingus, la compagnia di bandiera irlandese, con la sua bella coda verde scura con impresso un trifoglio più chiaro.
L’aereo è semivuoto tanto che riesco a contare non più di dieci teste oltre alle nostre.
Faremo scalo a Dublino per poi proseguire verso New York, ci sposteremo in auto a Boston, dove inizieremo a pedalare verso Washington lungo la East Coast Greenway.
La giornata fredda, ma bellissima, ci consente di avere una vista spettacolare dal finestrino. Il mare, la costa ligure, il monte Cervino, le Alpi, poi un lenzuolo di nuvole bianche fino alla costa irlandese, verde e frastagliata.
Atterriamo puntuali a Dublino. Qualche mail e qualche telefonata di lavoro sia per Micky che per me, un’altra serie interminabili di controlli per uscire dall’Irlanda e poi in aereo verso New York. Di nuovo su un Airbus 331-neo , un aereo un po’ piccolo per un viaggio intercontinentale.
A differenza del volo precedente è abbastanza pieno; comunque tra film, cibo e qualche pisolino, il tempo passa velocemente. la novità è che non abbiamo dovuto compilare il solito, lungo, questionario per entrare negli Stati Uniti.
Arriviamo a New York un’ora prima di quanto previsto. Abbiamo poco meno di quattro ore per sbrigare le pratiche di ingresso nel paese, ritirare le biciclette e i bagagli, prendere l’air train fino all’isola di noleggio auto, ritirare un mega suv sette posti dove caricare tutto e fare rotta su Boston.
Allo sbarco non ci viene fatto alcun controllo. Nessuna lunga fila per l’immigrazione. Nessuna foto o impronta digitale. Probabilmente sono sufficienti i controlli fatti in Irlanda. Un bel passo in avanti rispetto al passato. In meno di quaranta minuti prendiamo i bagagli ed entriamo in possesso di un enorme Toyota Sequoia, 5000 di cilindrata. Uscire da New York ci richiede attenzione e tempo. Le auto, di cui una buona parte non supererebbe l’omologazione della motorizzazione civile italiana, superano indistintamente da destra e da sinistra.
Dopo qualche decina di chilometri percorsi tra viali e controviali guadagnamo l’autostrada che ci porta verso nord. Un cartello enorme al lato della strada recita: “Vivi in pace. Arrenditi a Dio. È la verità”. È leggermente inquietante, ma rende l’idea della diversa concezione della fede che gli americani hanno rispetto a noi.
Viaggiamo per tre ore e mezzo nella notte di una highway della east coast. Ci fermiamo nei pressi di Boston a riposare. Sono 27 ore e mezzo che siamo in piedi e siamo stanchi.
Passeremo un paio di giorni a visitare Boston prima di imboccare la East Coast Greenway verso sud.